
Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Gli americani hanno concesso l’onore di una cena di Stato a un uomo politico italiano solo quattro volte nel passato: due ad Andreotti (1977 con Carter e 1990 con Bush senior), una a Cossiga (1980, ancora Carter), l’ultima a Prodi, nel 1998, che sedette a tavola con Clinton. Aggiungiamo che quella di ieri sera era per Obama l’ultima cena di Stato, prima di passare la mano, il prossimo 20 gennaio, a Hillary o a Trump. Basta questo per capire l’importanza della tre giorni americana di Renzi e della cena che ha avuto luogo alle sette di sera americane, cioè all’una di notte nostrana, e di cui, data l’ora, possiamo riferire solo i nomi di alcuni degli ospiti che il nostro premier s’è portato dietro e il menu, servito dal cuoco Mario Batali, nato a Seattle ma di origini italiane.
• Sentiamo.
La delegazione era formata, tra gli altri, da Agnese Renzi, Roberto Benigni e Paolo Sorrentino - registi premi Oscar -, Giorgio Armani, la campionessa paraolimpica Bebe Vio, il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini, la direttrice del Cern Fabiola Gianotti, la curatrice del dipartimento di Architettura e design del Moma, Paola Antonelli, il presidente dell’Autorità nazionale anti-corruzione Raffaele Cantone.
• E il menu?
Il menu di Mario Batali (servito su tovaglie damascate e piatti dipinti a mano affiancati da posate d’oro) era questo: agnolotti di patate dolci, insalata di zucca, manzo della California e crostata di mele verdi. Batali ha preso la zucca dall’orto di Michel alla Casa Bianca. Il concept della cena era: piatti italiani con ingredienti americani e con qualche sorpresa immaginata dallo chef. Siccome hanno mangiato all’una di notte e noi stiamo chiacchierando alle otto di sera, non so dire quanto i convitati abbiano gradito. Batali è un simpaticone, pluristellato, gira sempre con le crocs arancioni, è compagno d’avventure di Joe Bastianich. Alla vigilia ha detto: «Non sono mai preoccupato quando devo servire la pasta agli americani. Ma stavolta, a cena, in mezzo a 500 ospiti, ci sono un sacco di italiani, ed è diverso».
• Discorsi insignificanti, come al solito?
No, non troppo insignificati o non del tutto insignificanti, specialmente quelli di Obama. Dopo il tappeto rosso, le fanfare e i baci sulle guance delle due coppie presidenziali, c’è stato il prevedibile proclama di grande amore per l’Italia del presidente americano. Quindi Obama ha dato un fortissimo appoggio alla politica di Renzi, «giovane, bello e coraggioso», un uomo che punta «non sulle paure della gente, ma sulle speranze». E ha aggiunto: «Siamo d’accordo sul fatto che l’Unione europea debba concentrarsi sulla crescita. Il referendum potrà accelerare il percorso dell’Italia verso un’economia più vibrante (sic!) ed un sistema politico più efficace». Renzi ha subito risposto esaltando il «paradigma americano della crescita e non dell’austerity, gli Stati Uniti in questo sono un modello». Obama: «Gli americani hanno nell’Italia uno dei loro migliori alleati, lodo l’Italia per il suo ruolo chiave nella coalizione contro l’Isis e per il contributo diplomatico in Libia». Renzi: «L’agenda internazionale italiana coincide totalmente con quella americana. Il nostro impegno continua a fianco della coalizione internazionale in tutti i teatri, a cominciare da quello difficile in Iraq, dove siamo impegnati per il salvataggio della diga di Mosul». Obama: «Le riforme lanciate da Matteo Renzi, soprattutto in campo economico sono quelle giuste. Tifo per Matteo perché abbia successo e credo debba restare in politica qualunque sia il risultato del referendum». Sul referendum Renzi ha detto che «non vi saranno cataclismi se vince il no». Obama ha parlato anche dei migranti: «L’Italia o la Grecia non possono essere lasciate sole a sostenere il fardello dell’immigrazione. Se c’è un’Unione europea bisogna essere uniti nel bene e nel male, bisogna condividere i benefici ma anche i costi».
• Il senso politico di questo minuetto?
Obama critica l’austerità perché un’Europa austera compra meno, e gli Stati Uniti hanno bisogno di esportare. L’Italia è diventata particolarmente importante dopo la Brexit, perché la Gran Bretagna fuori dall’Europa veicolerà meno efficacemente le volontà statunitensi. I casi Volkswagen e Deutsche Bank fanno anche capire che l’America non può fidarsi della Germania, che anche storicamente ha più facilità a intendersi con Mosca che con Washington. Siamo fondamentali in Libia, dove gli americani di massima fanno quello che gli diciamo noi.
• Non siamo troppo poco nemici di Putin per i loro criteri?
Anzi, anche se i rapporti con la Russia sono molto tesi, c’è poi bisogno di un alleato che sappia parlare con l’avversario. Perché in ogni tempo e in ogni luogo mentre di sopra si combatte di sotto si tratta.
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