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 2016  ottobre 19 Mercoledì calendario

Ungheria per LaVerità– Una “piccola Brexit” aleggia sull’Europa. La sfida lanciata da Viktor Orbán potrebbe far crollare un altro tassello dell’Ue

Ungheria per LaVerità– Una “piccola Brexit” aleggia sull’Europa. La sfida lanciata da Viktor Orbán potrebbe far crollare un altro tassello dell’Ue. Oggi, infatti, si tiene in Ungheria il referendum sul sistema di quote dei richiedenti asilo approvato dalla Commissione Europea nel settembre 2015, sistema che assegnerebbe a Budapest circa 1.300 migranti. Per la precisione, gli elettori magiari sono chiamati a rispondere al quesito: «Volete che l’Ue possa prescrivere l’insediamento obbligatorio di cittadini non ungheresi anche senza il consenso del Parlamento ungherese?». Non c’è nessun dubbio sull’esito del voto perché, tra gli 8 milioni di elettori chiamati alle urne, l’80% è apertamente contro l’arrivo di migranti. L’incertezza è sul raggiungimento o meno del quorum del 50%, senza il quale la consultazione sarà considerata illegittima da Bruxelles. Orbán, il popolarissimo premier neoconservatore eletto nel 2010 e confermato nel 2014, in passato ha paragonato la burocrazia europea a quella dell’Urss e ha spiegato che Budapest «va protetta» da Bruxelles. «Non siamo xenofobi, difendiamo le frontiere Schengen ed europee secondo i trattati», ha spiegato il portavoce e spin doctor del primo ministro, Zoltán Kovács. L’Ungheria si è dimostrata finora il paese che ha attuato le misure più concrete e drastiche per affrontare l’emergenza migranti: un anno fa ha costruito una barriera di filo spinato alta quasi quattro metri e lunga 180 chilometri lungo il confine con la Serbia e tuttora difende la propria frontiera meridionale con 10.000 soldati. Inoltre una legge entrata in vigore a luglio permette alla polizia di rispedire in Serbia i migranti irregolari arrestati entro otto chilometri dal confine. La scorsa settimana poi il premier magiaro ha proposto di creare campi profughi nel continente africano: «Tutti coloro che entrano illegalmente dovrebbero essere radunati e portati altrove, fuori dall’Ue». Quello di oggi per Orbán non è solo un gesto di ribellione alle politiche comunitarie sull’immigrazione, vuole essere la legittimazione plebiscitaria della sua leadership nel paese e nel continente. D’altra parte la «Orbanomics» ha dato i suoi frutti in questi sei anni di governo: crescita economica al 3%, conti pubblici in ordine, previsione rating di Standard&Poor in miglioramento, disoccupazione crollata dall’11,2% del 2010 al 6,4% di quest’anno A fronte dell’umore popolare decisamente dalla parte di per Orbán, le opposizioni hanno parlato e si sono fatte vedere poco in queste settimane. Ieri la Coalizione democratica ha organizzato a Budapest una catena umana e oggi un gruppo di intellettuali, docenti universitari e artisti ha in programma una manifestazione nella capitale. Secondo gli ultimi sondaggi, il 42% degli intervistati si è detto certo di recarsi alle urne e, di questi, l’83% è dalla parte di Viktor Orbán e contro le quote. Solo il 13% è per il sì e il 4% pensa di annullare il voto. In realtà il partito di estrema destra Jobbik non solo è contrario alla ripartizione dei migranti, ma anche al modo in cui Orbán ha proposto ai cittadini di decidere contro l’Unione. «Il Parlamento ha il mandato degli elettori ungheresi, quindi basta una legge nazionale per bloccare le imposizioni europee», ha spiegato Márton Gyongyosi, deputato e stella nascente di Jobbik, che alle ultime elezioni politiche ha superato il 20%, mentre Fidesz, il partito di Orbán, ha ottenuto il 44,8 per cento. Il primo ministro invece ha auspicato che altri Paesi dell’Ue lo seguano sulla via del referendum, riferendosi innanzitutto ai suoi alleati del gruppo Visegrad – Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. Orbán sembra essere l’alternativa al “merkelismo”: ha sdoganato la linea della chiusura sull’immigrazione che oggi trova consensi tra gli stessi capi di governo che prima la criticavano; al contempo la portabandiera dell’accoglienza, la cancelliera tedesca Angela Merkel, attraversa la più grave crisi della sua storia. Dopo il collasso della Grecia, ancora agonizzante, e lo shock della Brexit, il futuro dell’Europa passa ora per l’Est.