
Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Il referendum sulle trivelle non ha raggiunto il quorum, come tutti sapevano fin dall’inizio, e dunque abbiamo buttato un po’ di tempo e qualche milione di euro per un esercizio di democrazia inutile, come sempre più di frequente sono diventati gli esercizi di democrazia, con grave rischio per la stessa democrazia.
• Si darà la colpa al bel tempo che ha mandato tutti al mare, al fatto che si è votato per un solo giorno invece che per due, alla televisione che ne ha parlato poco o niente, al boicottaggio delle istituzioni.
Possibile. È un fatto però che, a parte la consultazione sull’acqua del 2011, dove andò a votare più del 54% degli aventi diritto, la partecipazione ai referendum è andata costantemente calando, così come, del resto, la partecipazione alle elezioni propriamente dette e di qualunque tipo. In questo caso, poi, la partecipazione era ancora più dubbia per il fatto che a promuovere la consultazione non sono stati i cittadini con il solito sistema di raccogliere le firme, ma nove regioni interessate soprattutto a mettere in dubbio il potere dello Stato centrale sulla politica energetica. È un tema sempre più alla ribalta, quello del conflitto tra centro e periferia. Un tempo, saremmo stati senza dubbio dalla parte della periferia, eravamo periferia di un impero all’epoca delle guerre d’indipendenza, e in genere le periferie si ribellano a una sorta di assolutismo del centro, di solito unico titolare della prepotenza. Nel caso nostro, non credo che il centro di adesso - cioè Roma - abbia caratteristiche dittatoriali superiori a quelle delle Regioni. Le periferie attuali, nel nostro caso le Regioni, si comportano come centri altrettanto prevaricatori del centro propriamente detto, ergendosi anche a campioni di corruzione e sottogoverno. I nostri padri della Patria, costringendoci alla struttura regionale, ci hanno indotto purtroppo a un errore capitale. In ogni caso, ieri la periferia ha perso. Ma questo 30-35% di partecipazione sarà sicuramente letto come un risultato politicamente rilevante contro il centro romano e contro Renzi. Siamo cioè a una prova generale del referendum previsto per ottobre, e senza quorum, nel quale dovremo accettare o respingere la riforma costituzionale approvata in via definitiva dal Parlamento pochi giorni fa, quella che depotenzia e banalizza il Senato, togliendogli oltre tutto il voto di fiducia.
• Diciamo qualcosa sul merito del referendum.
Premesso che trivellare alla ricerca di gas o petrolio entro le 12 miglia è già proibito, si trattava di decidere che fare con i permessi concessi prima di questo divieto, alcuni dei quali risalgono addirittura al 1970. Il sì del referendum avrebbe impedito qualunque proroga, la vittoria del no o dell’astensione (per essere valido è necessario che votino sì o no almeno il cinquanta per cento più uno degli elettori, nel nostro caso 25.393.171 italiani) permetterà di rinnovare, se del caso, le licenze e anche di continuare lo sfruttamento dei giacimenti fino ad esaurimento. In ogni caso, i primi effetti (e solo i primi) di un eventuale vittoria del sì si sarebbe vista fra tre-cinque anni. Campa cavallo, come ha detto ieri Massimo Cacciari, secondo il quale «si sta parlando in realtà di cosa accadrà tra 18 o 19 anni», quando scadranno la maggior parte delle concessioni.
• Renzi esce rafforzato o indebolito da questa prova?
Né l’uno né l’altro. Il premier aveva già disinnescato alla vigilia la lettura politica di questo voto, come si è premurato di sterilizzare le elezioni comunali nelle grandi città, in cui è più probabile che perda. Il premier punta tutto su questo referendum d’ottobre, che vuole trasformare in un plebiscito su se stesso. Forse rischia, ma forse no.
• Perché?
Il rischio è che i suoi oppositori esterni e interni si organizzino meglio a ottobre. Oltre tutto i berlusconiani, ai quali ieri era stata data libertà di coscienza, a ottobre dovrebbero essere impegnati a far propaganda contro Renzi, se nel frattempo gli interessi privati del Cavaliere non dovessero diventare troppo pressanti. D’altra parte, il nostro presidente del Consiglio ha già dimostrato di essere un buon pokerista, uno cioè capace di giocarsi la partita quando il piatto è sufficientemente ricco.
• Che vantaggio allora hanno avuto le nove regioni a ingaggiare questa battaglia?
Come ho detto prima, è in ogni caso sul tappeto la questione di chi debba comandare riguardo a questioni capitali come la politica energetica e/o industriale. Sono questioni che spaccano anche il sindacato. La Cgil, che detesta Renzi, ha dato però libertà di voto, perché i rischi per l’occupazione insiti in una vittoria del sì erano troppo alti (l’unico schierato con i referendari apertamente è stato Landini). Alcuni tuttavia hanno sfruttato il referendum come uno scalino per l’arrampicata politica. Il governatore della Puglia, Michele Emiliano, vuole presentarsi come alternativa a Renzi nel congresso democratico dell’anno prossimo. Il referendum gli ha dato visibilità, dunque per lui è stato in ogni caso una buona occasione.
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