Libero, 18 aprile 2016
Ritratto di Piercamillo Davigo, inquisitore per vocazione
Piercamillo Davigo, da poco diventato presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, è stato cresciuto da una zia che si chiamava Benita e che viene indicata come «rigida e autoritaria», e a voler essere superficiali (molto) ce lo faremmo bastare. Cerchiamo di non esserlo e annotiamo che Davigo è nato a Candia Lomellina il 20 ottobre 1950 (venti giorni dopo Antonio Di Pietro) e cioè in un paese che contava 2500 abitanti (oggi 1600) sito tra Lombardia e Piemonte, a 15 chilometri da Casale Monferrato e comunque terra di nebbia, zanzare, risaie e contadini coi calli sulle mani. L’evento più sensazionale erano le giostre. Suo padre Luigi gestiva una pesca sportiva (cavedani e carpe) e sua madre si chiamava Giannina Soldato, figlia di nonno Camillo che per anni fu sindaco del paese nonché personalità rigorosa, giurista innamorato della Storia, cose che lascerà in eredità a Piercamillo assieme a un’intera casa. Il futuro magistrato crebbe in effetti con zia Benita perché i genitori si separarono quando lui aveva 6 anni; il fratello del nonno inoltre era un padre Scolopio. Crebbe cattolico come tutta la famiglia. Questo un primo quadro.
Alle elementari risulta uno studente modello soprattutto in Storia e nelle materie tecniche (aveva grande memoria), ma poi in adolescenza sbandò come spesso succede. C’è qualche leggenda. L’inviato del Messaggero Fabrizio Rizzi scrisse di un Piercamillo 13enne che alla stazione di Mortara «sfidò la morte e bloccò un treno sui binari», ma la voce fu raccolta nel 1993, quando Davigo era divenuto una celebrità e tutto veniva ingigantito; un altro aneddoto più insistito vuole che il ragazzino fosse sulla corriera che lo portava da Casale a Candia Lomellina quando un onorevole della zona, un potente comunista, gli intimò di cedergli il posto a sedere, e Piercamillo: «Io pago il biglietto e lei no». Sciocchezzuole. Sicuramente da piccolo era già roccioso, studioso, un po’ ribelle, un po’ provinciale: comunque troppo discolo per essere un tipo da liceo. Così lo iscrissero a un istituto tecnico industriale, il Contardo Ferrini di Casale: perito chimico, come Di Pietro, che però divenne elettrotecnico. E anche qui leggende senza importanza, tipo un guaio combinato nel laboratorio di chimica (una modesta esplosione) con tanto di espiazione a costruire un muro di mattoni nel giardino del nonno.
Dall’università fece sul serio. Si iscrisse a giurisprudenza, a Genova, e le sue doti mnemoniche gli favorirono una laurea a 24 anni e mezzo con 110 e lode. È il 1974 e gli mancava solo il militare a Bracciano, dove fece il corso ufficiali per poi tornarsene a Vercelli da sottotenente.
Poi la vita adulta. Il voto universitario gli favorì l’interessamento di aziende come Enel e Solvay, ma lui preferì l’Unione industriali di Torino (lo stipendio era più alto) dove si occupò di sindacato e di affari delle industrie grafiche e di stampa. Nel complesso, due palle così: allora dal 1976 al 1977 partecipò al concorso per magistrato, che prevedeva uno stipendio minore ma uno status maggiore. Passato il concorso, eccolo in una Milano sconosciuta. C’è anche l’aneddoto con lui che doveva fare un interrogatorio a San Vittore (che è abbastanza in centro) ma non riusciva a trovarlo, così chiese a un vigile: scusi, qual è la strada per il carcere? Presto Davigo le imparerà tutte. A scrivere la relazione di gradimento per l’uditore Davigo è Ferdinando Pomarici, anche se era stato assegnato a Emilio Alessandrini. È il 1° febbraio 1979 e comincia a lavorare. È sveglio, sa di procedura, a suo modo è simpatico: racconta barzellette, vizio che non perderà durante Mani pulite quando ne raccontava sui socialisti nell’ufficio del gip Italo Ghitti, mentre i giornalisti origliavano dal bagno.
CONTRO CASIRAGHI
Si fece le ossa su cose tecniche, processi sull’Iva, scandali bancari, mafie, mafiette, riciclaggio. Sposò un’insegnante di scuola media. Portava un cappello Borsalino, ascoltava un po’ di musica classica. Per un paio d’anni finì a Vigevano, ma poi tornò a Milano e divenne uomo ombra del collega Francesco Di Maggio, con cui interrogò a lungo anche il “tebano” Angelo Epaminonda. Nel 1985 incontrò Tommaso Buscetta al commissariato dell’Isola Tiberina, a Roma. C’era anche Falcone. Si incaponì sull’esonero facile dalla leva di Stefano Casiraghi, marito di Caroline di Monaco. Casiraghi aveva evitato il militare certificando un tumore ai genitali che comportava impotenza: ma poi aveva fatto tre figli. Insomma, Davigo era un magistrato ligio e dovizioso che faceva il proprio dovere, oppure, secondo le angolazioni, era un grandissimo rompicoglioni. Però la sua formazione fu anche questa, e sulla cosiddetta società civile non si fece troppe illusioni. Dirà: «Sono le piccole vicende a deprimermi. Mi sono capitati due o tre processi dove centinaia di persone hanno pagato somme di qualche milione per non fare il servizio militare... Questo vuol dire che io pago non solo per non farlo, ma anche perché altri lo facciano al mio posto. Questo rappresenta una mancata percezione del proprio dovere non soltanto verso lo Stato, ma anche verso gli altri... È la stessa cosa, in grande, del non rispettare la fila... Eppure tutti i giovani venivano da buone famiglie che li finanziavano».
Oltre all’esperienza, c’è una base teorica. Appassionato di Storia e politica (Machiavelli, Guicciardini, l’inglese Arnold Toynbee), Davigo ha inteso il nostro Paese come un complicato impasto di cattolicesimo e marxismo e capitalismo che nell’insieme ne ha rallentato lo spirito competitivo. Il magistrato ammicca alla legalità come valore e alla severità dei Paesi protestanti: cui contrappone il nostro perdonismo, il concetto di indulgenza e di peccato veniale, il così fan tutti, le amnistie e i condoni, il “severamente” da aggiungere al “vietato”. Dice – ora – che la recessione favorirà una minor disponibilità alla tolleranza, e che questo ci avvicinerà ad altri Paesi europei. Ha detto: «Non ho mai visto mogli che si separavano perché il marito era un corrotto; ho visto, invece, mogli che denunciavano il marito corrotto perché non passava loro un assegno abbastanza consistente».
Prima di “Mani pulite” comunque lo conoscevano in pochi. Se ne trova traccia sul settimanale “Epoca” del 25 settembre 1991, quando ironizzava circa «l’archivificio di palazzo di giustizia» che coincideva appunto con l’archiviazione del 77 per cento dei procedimenti. Poi “Mani pulite” e Di Pietro, anche se il procuratore capo dapprima gli preferì Gherardo Colombo. Questione di tempo. I giornalisti impareranno a conoscerlo: bassino, schivo, poco sorridente, sfuggente alle immagini degli operatori, camminata celere: da qui Pierbirillo. Più avanti, Piercavillo. Un dottor sottile capace anche di grana molto grossa.
SOLUZIONI GIURIDICHE
Il suo ruolo: tanti, ma Di Pietro annoterà in un suo libro: «Io andavo da Davigo o da Colombo e segnalavo un’operazione che mi puzzava. “Vedi che cosa è successo qui? Questo secondo me è un reato di porcata... Cari Davigo e Colombo, dicevo, cavoli vostri, entro domattina trovate una soluzione che dal punto di vista giuridico non faccia una piega, perché devo procedere”». Traduzione: voglio metterlo dentro, il modo trovatelo voi. Ma più che Colombo, c’era Davigo. L’ha indirettamente confermato anche Primo Greganti, storico inquisito comunista: «Avevano emesso un mandato d’arresto illegittimo... allora Di Pietro ha detto: “Adesso vado da Davigo e vedrai che lui un motivo per tenerti dentro lo trova”».
Davigo, così facendo, incappò anche in incidenti. Incarcerò un certo Generoso Buonanno, per tre mesi, sulla base degli stessi elementi per cui altri poi lo assolsero; lo stesso fece con Antonio De Mitri, un signore ingabbiato per sei mesi e poi assolto – dopo dieci anni complessivi – anche se suo figlio, nel frattempo, si era suicidato. Per entrambi i casi, Davigo querelò lo scrivente, ma non ebbe soddisfazione. In un’altra sua querela, pure persa, si sosteneva tra l’altro che un refuso («Pircamillo») avesse valenza denigratoria. Ha fatto un’ottantina di querele solo dal ’93 al ’98, conservando le cause in un’apposita cartellina.
Fu sempre durissimo, Davigo. Per molti resta quello che dopo il suicidio del parlamentare Sergio Moroni disse che «le conseguenze dei delitti devono ricadere su chi li ha commessi, non su chi li ha scoperti». E ciao.
L’hanno spesso definito di destra, ma non lo è, se non culturalmente. Tra lui e certa destra “legalista” c’è stata spesso consonanza anche sulla funzione retributiva del carcere: in Italia – ha sostenuto – semplicemente ci sono pochi detenuti in rapporto alla popolazione.
Gli piace semplificare. Hanno scritto tutti che si rifaccia al Vangelo: «Sia il vostro dire sì sì, no no. Il di più viene dal maligno». Non crede che alla giustizia servano riforme particolari, ma solo procedure da rivedere o da sfrondare. Davigo è uno che tiene sempre il punto, fazioso per convinzione e per scelta, portato a rifuggire le parole di compromesso perché olezzano di paludoso bizantinismo. Lo scontro tra magistratura e politica non lo spaventa, anzi, pensa che sia fisiologico: è quello che c’è da attendersi.
Le intercettazioni: «La pubblicazione di intercettazioni non pertinenti è già disciplinata dal reato di diffamazione, non vedo il problema». Davigo non vede problemi. La presunzione d’innocenza: «I politici che delinquono vanno mandati a casa senza il bisogno di attendere il giudizio definitivo». La corruzione: «Abbiamo preso le prede più lente e quelle più veloci l’hanno fatta franca». I magistrati scansafatiche: «Quelli italiani sono quelli che lavorano di più in Europa». I loro errori e negligenze: «Dipendono da carichi di lavoro che non hanno equivalenti negli altri Paesi». Il resto viene dal maligno.