Corriere Economia, 18 aprile 2016
Cina, cronaca di una mancata guerra valutaria
Ora «gli orsi dello yuan si leccano le ferite» dicono gli analisti monetari guardando alla nuova stabilizzazione della valuta cinese. Fatti i conti dei primi tre mesi del 2016, lo yuan si è rafforzato dello 0,3 per cento sul dollaro, dando un brutto colpo alle speranze degli hedge fund internazionali che invece avevano scommesso su un forte deprezzamento. In più a fine marzo, per la prima volta da mesi, le riserve cinesi in valuta estera tra dollari, euro, sterline, yuen, sono tornate a crescere di 10,3 miliardi di dollari, risalendo a un totale di 3,213 trilioni di dollari. La storia però è complicata e tutt’altro che finita.
La storia
Quando nel cuore dell’estate scorsa, mentre la Borsa di Shanghai crollava, Pechino improvvisamente svalutò lo yuan del 3,5% sul dollaro in due giorni, molti economisti e operatori finanziari si misero l’elmetto, annunciando (o sperando) che fosse l’inizio di una guerra delle valute. Sono seguiti mesi di incertezza e di «estrema volatilità», come si dice. Pechino giurò che non si trattava di una svalutazione competitiva per spingere le sue esportazioni, ma solo di un’apertura a fluttuazioni di mercato. Il Fondo monetario internazionale stava per decidere l’inclusione dello yuan nel paniere delle valute di riserva e la Cina voleva dimostrare di essere pronta ad accettare il gioco delle contrattazioni, per ottenere la promozione di prestigio.
Di sicuro, però, quella mossa d’estate fu mal comunicata dalla People’s Bank of China, la Banca centrale. Gli hedge fund internazionali cominciarono a puntare su un continuo calo del renminbi («valuta del popolo», il nome ufficiale dello yuan cinese) e i neocapitalisti cinesi a spostare masse di denaro fuori dal Paese. Lo yuan scivolò ancora fuori controllo; la crisi della moneta si aggiunse al rallentamento dell’economia spaventando i dirigenti-dirigisti del partito comunista, che cambiarono subito idea e ordinarono alla Banca centrale di spendere miliardi di dollari per sostenere il renminbi.
In questa manovra riparatoria e goffa si calcola che Pechino abbia speso da luglio oltre 500 miliardi di dollari e che altri 500 miliardi siano stati spostati all’estero dai privati cinesi. A gennaio 2016 è sceso in campo George Soros. Il vecchio investitore entrato nella storia come l’Uomo che sbancò la Banca d’Inghilterra nel Mercoledì nero del 1992 ha commentato così la situazione dell’economia cinese: «Non mi aspetto un atterraggio duro, lo sto già osservando».
Finalmente, dopo un lungo silenzio, si è fatto sentire il governatore Zhou Xiaochuan: «La Banca centrale non può certo rivelare agli speculatori le mosse della partita a scacchi», ha detto con calma assicurando che non c’erano motivi perché lo yuan dovesse cadere ancora e la Borsa non potesse tornare a salire.
Le mosse
Quali sono state allora le mosse sulla scacchiera del governatore centrale cinese? Una, sorprendente, è emersa da una serie di comunicazioni tra la People’s Bank of China e la Federal Reserve americana che è arrivata all’agenzia Reuters. Era il 27 luglio e sul suo Blackberry Steven Kamin, direttore dell’International Finance Division della Fed ricevette una email con l’intestazione: «Your urgent assistance is greatly appreciated!».
L’aveva mandata Song Xiangyan, il rappresentante della Banca centrale cinese a New York e chiedeva ai colleghi Usa, per conto del governatore Zhou, come avessero reagito loro nel Lunedì nero del 19 ottobre 1987, quando i titoli di Wall Street erano caduti di oltre il 20%.
In Cina la Borsa è giovane e non c’è esperienza di gestione di crolli improvvisi. Kamin si consultò con i vertici e poche ore dopo ai cinesi arrivò un sommario delle iniziative delle Fed prese nel 1987 per calmare i mercati e scongiurare una recessione. A quanto pare Pechino ha cominciato a seguire la stessa strada. Un’altra serie di mosse degli scacchisti di Pechino: Liu He, il superconsigliere economico del presidente Xi Jinping, ha telefonato al segretario al Tesoro Usa Jack Lew in almeno cinque occasioni, ad agosto, settembre, novembre, dicembre e gennaio per discutere di cambi. Jack Lew e la direttrice dell’Fmi Christine Lagarde avevano più volte chiesto ai cinesi dichiarazioni e comunicazioni chiare sulla politica monetaria.
C’è un altro fattore importante. La Cina quest’anno è presidente di turno del G20 e punta trasformare il vertice dei capi di Stato e di governo di Hangzhou a settembre in un grande show di potenza, che fallirebbe se invece si trovasse sul banco degli imputati per aver scatenato davvero una guerra delle valute. Si dice che a Shanghai a febbraio, quando si sono riuniti i ministri finanziari del G20, americani e cinesi abbiano raggiunto un accordo monetario: la voce non è ufficiale ma intanto ora il renminbi si è stabilizzato e la volatilità sui mercati è diminuita.
«La Banca centrale non è né un dio né un mago», ripete il governatore Zhou Xiaochuan. Ma la settimana scorsa sono arrivati altri due segnali che contano: il Fondo monetario nell’outlook di primavera ha rivisto al rialzo la previsione di crescita del Pil cinese, dal 6,3 al 6,5% per il 2016, in linea con l’obiettivo dichiarato da Pechino (a fronte di un taglio per le altre potenze). E per la prima volta dopo nove mesi, a marzo l’export cinese ha ripreso a correre segnando un +18,7% su base annuale calcolato in yuan.