La Stampa, 18 aprile 2016
La vita segreta dei cellulari fa davvero paura. Intervista a Paolo Genovese
Non potendo cambiare la natura umana, che resta il problema di fondo, anche gli americani si stanno convincendo a spegnere gli smartphone. O quanto meno a riflettere su come usarli diversamente. È la percezione che ha raccolto il regista Paolo Genovese osservando le reazioni del pubblico alle proiezioni del suo Perfetti sconosciuti al Tribeca Film Festival.
Lei in pratica è venuto a dire agli inventori degli smartphone che sarebbe meglio spegnerli?
«Diciamo a ricordare loro che forse dovremmo usarli diversamente».
Qual è il problema?
«Non voglio tornare ai citofoni, però l’uso che facciamo degli smartphone sta diventando patologico, soprattutto nelle relazioni personali. Ci mettiamo troppe cose della nostra vita segreta, ma siamo tutti fragili».
Le vite segrete, che nel film emergono drammaticamente quando a cena si comincia a fare un gioco di trasparenza con i cellulari, non esistevano prima?
«Sì, ma erano diverse. Sul piano delle relazioni, il tradimento era una scelta molto più consapevole. È diventato più semplice: si comincia anche da casa, con un messaggio o una foto».
«Perfetti sconosciuti» è una commedia che sconfina nella tragedia, ad esempio nel rifiuto di accettare un amico gay. È colpa del cellulare che lo svela, o della natura umana?
«Il film è una critica della natura umana. Il cellulare è solo uno strumento che la rivela».
La rivela, o la peggiora?
«Forse la peggiora, perché acuisce alcuni comportamenti. A Natale sono venuto negli Usa con i miei figli, e guardavano tutto attraverso lo smartphone. Godere il momento reale era impossibile. Anche nelle relazioni sentimentali, con le fidanzatine, timidezza, imbarazzo, spontaneità stanno sparendo proprio perché viviamo la vita attraverso lo schermo».
Lei lo ha fatto il giochino del cellulare?
«Mai. Dovremmo lanciare una campagna, come quella che si fa per le pubblicità dove si vedono manovre acrobatiche con le auto: sono condotte da professionisti, non ripetetele a casa».
Rischiamo di farci male?
«Ho saputo anche di coppie di amici che si sono separate, dopo. La semplice domanda di farsi dare lo smartphone può degenerare in un problema serio. Gli abbiamo affidato troppe cose».
Perché mettiamo la nostra esistenza in piazza con i social?
«Il desiderio di apparire è atavico, e strumenti come Facebook ci danno un indicatore immediato del ritorno. Poi possiamo decidere quale delle nostre possibili vite mostrare».
Ci insultiamo anche a valanga, sui social.
«Proprio perché mancano il garbo, l’educazione generati dal rispetto per la persona che abbiamo davanti. Se c’è il filtro dello smartphone, il freno scompare».
Negli Usa c’è un intenso dibattito sulla privacy, dopo che l’Fbi ha chiesto alla Apple di violare l’iPhone del terrorista di San Bernardino. Da che parte sta?
«Non capisco perché l’interesse pubblico superiore di sicurezza, in un’epoca scura segnata dal terrorismo, non dovrebbe prevalere su quello di un’azienda. Mi colpisce che l’Apple non abbia fiducia nella capacità dell’Fbi di mantenere il segreto e difendere i cittadini».
Oltre alle offerte di distribuirlo e le proposte di girare remake, da cosa ha capito che gli americani apprezzano il film?
«Dalla sala. Il modo in cui reagiscono, seguono, ridono, fanno domande alla fine».
Ad esempio?
«Chiedono tutti del finale. Vogliono sapere se è un sogno e perché non si conclude male. Io però penso che non sia rassicurante, ma negativo. Il film critica la natura umana: anche quando ne scopriamo i limiti, preferiamo tornare a vivere nell’ipocrisia».