Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Sabato prossimo, alle quattro del pomeriggio, Sergio Marchionne e John Elkann, cioè il vertice Fiat, incontreranno a Palazzo Chigi il presidente del Consiglio Mario Monti e i due ministri Corrado Passera (Sviluppo economico) ed Elsa Fornero (Lavoro). Questa convocazione chiude una sequenza di eventi che è cominciata due anni fa con l’annunciata intenzione del Lingotto di investire 20 miliardi in Italia a patto che le relazioni industriali in Italia e il sistema dei contratti subisse profonde modifiche. Su questa base venne firmato con Cisl e Uil il famoso accordo prima per Pomigliano e poi per la Bertone di Grugliasco, accordo che la Fiom respingeva autoescludendosi in questo modo dagli stabilimenti. Senonché la settimana scorsa, dagli Stati Uniti, Marchionne ha annunciato che di quel progetto, battezzato “Fabbrica Italia”, non se ne faceva più niente, essendo profondamente modificate da allora a oggi le condizioni generali del mercato in Europa, con crollo delle macchine vendute e perdite secche per il Lingotto pari a 700 milioni di euro. Al culmine di polemiche in cui l’amministratore delegato della Fiat era mille volte messo sul banco degli imputati – e alla lapidazione partecipava perfino un imprenditore, cioè Diego Della Valle – Marchionne ha reso un’intervista a “Repubblica” in cui nega di voler abbandonare l’Italia ma invita tutti a tener conto dell’inesistenza del mercato in Italia e in Europa, dove (dati di ieri) le vendite in Europa di tutti i marchi sono calate dall’inizio dell’anno del 6,6%, ma del 17% per la Fiat. Dopo questa intervista, in cui l’ingegnere italo-canadese ha risposto con passione alle domande di Ezio Mauro, Monti lo ha convocato a Roma e Marchionne, come aveva promesso, ha subito accettato di andare a spiegarsi.
• Ci sono tante questioni in ballo. Il verde Bonelli ha ricordato che la Fiat negli ultimi trent’anni ha avuto dallo Stato italiano 30 miliardi. Dunque ha il dovere di non dimenticare il Paese che l’ha fatta vivere e che ha arricchito i suoi azionisti.
È un po’ il discorso che fa anche Della Valle, il quale, com’è suo costume, ha calcato fortemente su toni e parole, «furbetti cosmopoliti di Torino», «tragico teatrino degli annunci da parte della Fiat», «questi supponenti signori sappiano che gli imprenditori italiani vivono veramente di competitività, rispettano i loro dipendenti e onorano gli impegni» eccetera eccetera, dunque «non vogliono essere accomunati a loro». Esagerazioni, perché gli imprenditori che sono corsi a delocalizzare in Romania o in Cina pur di non aver a che fare con sindacati, costo del lavoro, tasse e burocrazia italiani si contano a migliaia. Per non parlare delle altre centinaia che hanno collocato le loro società in qualche paradiso fiscale. In ogni caso Marchionne s’è visto dar contro anche da Romiti, il vecchio amministratore delegato della Fiat, il quale lo ha accusato di non aver fatto ricerca e sviluppo, e ha accusato anche i sindacati di essergli andati dietro troppo pedissequamente, tranne la Fiom la cui resistenza a Romiti è piaciuta.
• Marchionne, nell’intervista a Repubblica, ha risposto qualcosa a questi formidabili accusatori?
A Della Valle: «Che tutti parlano a cento all’ora, perché la Fiat è un bersaglio grosso, più delle scarpe di alta qualità e di alto prezzo che compravo anch’io fino a qualche tempo fa: adesso non più. Ci sarebbe da domandarsi chi ha dato la cattedra a molti maestri d’automobile improvvisati. Ma significherebbe starnazzare nel pollaio più provinciale che c’è». A Romiti: «Mi dispiace, ma il mondo Fiat che abbiamo creato noi non è più quello di Romiti. E anche la parola cosmopolita non è una bestemmia, come sembra intendere qualcuno. È l’unica salvezza che abbiamo».• Chi ha ragione?
Mi sembra che alcuni punti siano indiscutibili. La Fiat era un’azienda morta nel 2004, dunque a rigore oggi non dovremmo avere né Pomigliano né Melfi né Cassino né Mirafiori: Marchionne, riuscendo a incassare il put General Motors, e andando poi a infilarsi nella crisi americana con un’abilità enorme, fabbrica adesso quattro milioni e duecento mila macchine all’anno, è di nuovo un competitor globale e guadagnerà quest’anno più di tre miliardi e mezzo a livello operativo, al netto della perdita italiana di 700 milioni. Inoltre: la Fiat è un’azienda privata e il suo amministratore delegato deve rispondere ai suoi azionisti. A rigore – è il ragionamento americano che Marchionne ci invita a fare – dei quattro stabilimenti italiani, in base ai numeri, ne andrebbero chiusi tre. Uno sarebbe sufficiente per le 400 mila macchine che si vendono adesso in Italia.
• Dall’altra parte dicono che non vende perché non progetta nuove automobili.
Lui risponde: col mercato morto di adesso, gli investimenti in nuovi modelli sarebbero soldi buttati. Fabbrico la Panda – la migliore Panda della storia – e nessuno la vuole. La General Motors, che ha provato a investire in Europa, s’è trovata con 12 miliardi in meno.
• Che possono dirgli, sabato, il capo del governo e i ministri?
A Ezio Mauro l’ad della Fiat ha detto: «Io mi impegno a restare in Italia, ma non posso impegnarmi da solo». Credo che chieda di continuare nella riforma delle relazioni industriali e del mercato del lavoro (con la Fiom ha in ballo 70 cause). Fa capire che forse, nel 2014 o più probabilmente nel 2015, potrebbe esserci una ripresa. E a quel punto bisognerà essere pronti come sistema. In ogni caso ci comunicherà le sue intenzioni alla fine di ottobre, quando si farà il consuntivo del terzo trimestre dell’anno.
[Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 19 settembre 2012]