Paolo Mereghetti, Corriere della Sera 19/9/2012, 19 settembre 2012
C ome si racconta un cineasta? Robert B. Weide apre il suo Woody (in originale Woody Allen: A Documentary) con una prova di mimetismo: i titoli di testa hanno gli stessi caratteri di quelli spesso usati dal regista newyorkese e le immagini sembrano quelle di tanti suoi film, a cominciare da Manhattan (anche se a colori questa volta)
C ome si racconta un cineasta? Robert B. Weide apre il suo Woody (in originale Woody Allen: A Documentary) con una prova di mimetismo: i titoli di testa hanno gli stessi caratteri di quelli spesso usati dal regista newyorkese e le immagini sembrano quelle di tanti suoi film, a cominciare da Manhattan (anche se a colori questa volta). Non è un incipit innocente: rende tangibile da subito l’«adesione» del regista al mondo di Allen e insieme la sua voglia di scavare al meglio dentro una materia conosciuta (non promette scoop o rivelazioni «non autorizzate») rivendicando anche una conoscenza «filologica» dell’argomento che gli permette di misurarsi «alla pari» con l’universo alleniano. Un dialogo, non una guerra o una caccia. E infatti il dialogo inizia subito, con Woody Allen che apre alla macchina da presa le porte della sua camera, del suo studio, dei cassetti dove accumula fogli e appunti raccolti in ogni dove e che possono venirgli utili un giorno o l’altro. E che infatti, come spiegherà in una scena successiva, consulta ogni volta che deve iniziare un nuovo film, a caccia di qualche buona idea. Questa linea di confronto diretto, che il regista (settantasette anni il prossimo primo dicembre) accetta con inusitata franchezza e sincerità, si intreccia a una messe di materiali sorprendenti, recuperati da trasmissioni televisive che il tempo aveva cancellato o quasi, e a un’altrettanto sorprendente galleria di ricordi e testimonianze che mettono a confronto attori e sceneggiatori, produttori e direttori della fotografia, familiari e amici. A tenere insieme questi materiali, c’è la ricostruzione cronologica della carriera di Woody Allen, dai tempi in cui, ancora studente liceale, scriveva battute per i comici di Broadway, ai suoi primi esordi in scena, alle comparsate televisive fino all’esplodere della sua carriera cinematografica. Se in un film giallo non bisogna svelare i colpi di scena e l’assassino, così sarebbe sbagliato anticipare qui le tante battute che il film regala ai suoi spettatori, le curiosità che svela, i piccoli significativi aneddoti che racconta. Faccio eccezione solo per uno, che già aveva fatto il giro di molti giornali quando il film era stato presentato in anteprima all’ultimo festival di Cannes, a maggio. È l’insoddisfazione che Allen ricorda alla fine del montaggio di Manhattan: il suo film più famoso e forse più bello gli sembrava talmente poco riuscito da aver proposto ai dirigenti della United Artists di non distribuirlo. In cambio avrebbe girato per loro un altro film senza pretendere alcun pagamento. Per fortuna non gli dettero retta ma l’episodio, oltre che divertente, è significativo dell’atteggiamento che Woody Allen ha verso la propria opera. Come ribadisce in una altra dichiarazione, il film che gli dà più soddisfazione non è quello più riuscito ma quello che gli offre i maggiori ostacoli, sempre alla ricerca di un’opera che lo stimoli, gli dia il metro del proprio valore e non solo la gratificazione di un (prevedibile) successo. Colpisce, in un film che avrebbe potuto essere anche una specie di elogio apologetico, la sincerità con cui Allen ammette di aver fatto anche opere non riuscite. Non è facile strappargli un apprezzamento positivo su se stesso, una dichiarazione di compiaciuta vanità. Persino sulla fine del suo legame con Mia Farrow, finito su tutti i tabloid scandalistici del mondo, accetta le opinioni di chi la pensa diversamente (e il film illustra quel tema usando intelligentemente alcuni scene di Mariti e mogli, con Allen e la Farrow in una scena di crisi sentimentale, molto probabilmente girata dopo la loro rottura reale). A sottolineare invece la sua genialità ci pensano i tantissimi attori che hanno lavorato con lui (commovente la testimonianza di Mariel Hemingway che ricorda l’ultima scena di Manhattan, illuminanti quelle di Josh Brolin e Naomi Watts sulle insicurezze degli attori), i suoi produttori, i suoi cosceneggiatori, il direttore della fotografia Gordon Willis (che Allen usò in controtendenza, lui che era chiamato il «principe delle ombre»), la sorella Letty Aronson, tutti affascinati — e giustamente, viene da aggiungere — da un modo di dirigere semplice quanto efficace, capace di prendere da ognuno le qualità migliori. Ad ogni complimento Allen si schermisce, si nasconde dietro la propria timidezza e le proprie manie (quale altro regista interrompe le riprese per andare a casa a vedersi una partita in tivù?) ma soprattutto sfodera una sincerità che probabilmente è il segreto più vero dei suoi tanti capolavori: la capacità di raccontare la vita così come lui stesso l’ha vissuta o vorrebbe averlo fatto, nella maniera più semplice e diretta possibile, senza tradire quella fiducia nelle persone che nonostante sarcasmi, battute e fobie varie non gli è mai venuta meno.