Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  settembre 19 Mercoledì calendario

LA «GENERAZIONE SELVAGGIA» CHE HA ANTICIPATO PASOLINI

Le bastonate ci vogliono. E, infatti, Marcello Gallian ne fa un proclama: «Io ho bisogno di fare a bastonate». Così diceva compenetrandosi nella propria carne: «lo capisco il mio destino». E con le bastonate è necessario starsene per strada: «Ci sono uomini» diceva ancora «nati per la strada, uomini che non si rassegnano».
Ecco, questo è Marcello Gallian, scrittore e pittore, l’artista che si meritò da Enrico Falqui, curatore con Elio Vittorini dell’antologia Scrittori nuovi (1930), una certificazione precisa quanto lusinghiera: «Il più ribelle ed emancipato degli scrittori contemporanei». Le pagine e le bastonate di Gallian, con un intero secolo alle nostre spalle, non sono certo a noi contemporanee ma, pur archivio del modernariato, hanno ancora il vivido bagliore di un’esistenza poetica, irrituale e anti-borghese e perciò ancora oggi avanguardia. Marcello Gallian era nato nel 1902 da Angelo, console generale in Turchia, e aveva trascorso gli anni dell’adolescenza dapprima in collegio a Roma e poi a Firenze nel convento dei Vallombrosiani della Santa Trinità. Quella clausura fu la sua ultima degnazione agli obblighi dell’adolescenza per poi seguire Gabriele D’Annunzio nell’impresa di Fiume e partecipare infine, nelle nuove giornate della giovinezza italiana, alla Marcia su Roma. Italianissimo e vitale, ebbe in vena le invettive di Dante sulla corruzione della «classe nova » e la borghesia nascente. Lesse Cecco Angiolieri, Savonarola, Giordano Bruno, Tommaso Campanella ma anche Fëdor Dostoevskij, il proletario Massimo Gorki e Vladimir Majakovskij. Protagonista dell’avanguardia romana, Gallian collaborò alla rivista 900 di Massimo Bontempelli e alle pagine culturali del Corriere della Sera.
Contro i borghesi
Nel 1925 fondò il periodico Spirito Nuovo, rassegna quindicinale del panorama artistico italiano da cui sferrò numerosi attacchi contro l’arte borghese. Fu fascistissimo Gallian, e viveva la sua adesione al movimento fondato da Benito Mussolini con una grande tensione eversiva per vagheggiare una prossima rivoluzione antiborghese. E «irriducibile fascista antiborghese» lo definì Umberto Carpi dopo averlo avvistato tra gli avamposti della poesia e la politica. L’Italia di Gallian aveva ben più di una fornace per ravvivare i fuochi dell’intelligenza, nulla poteva acquietarsi, tutto doveva sperimentarsi e così Gallian, nella Compagnia del Teatro dei giovani, partecipò all’avventura del Teatro degli Avanguardisti di Anton Giulio Bragaglia per cui scrisse la commedia La casa di Lazzaro. Rappresentata nel febbraio del 1929, La casa fu un grande successo, salutato dalla critica e dagli applausi del pubblico, e fu Casa presto causa di violente polemiche e di imbarazzi per la gerarchia fascista proprio quando, l’undici dello stesso mese, il regime sottoscriveva con il Vaticano i Patti Lateranensi.
Fascista fascistissimo, via via che il regime promuoveva il «ritorno all’ordine», smorzando e poi spegnendo definitivamente i rigurgiti rivoluzionari dei suoi inizi, Gallian veniva progressivamente emarginato. Pur se Mussolini si prodigò verso lo scrittore aiutandolo finanziariamente, deciso fu il disaccordo del Duce dalle idee dell’artista che nutriva una feroce avversione per lo spirito borghese e un grande attaccamento alla rivoluzione squadrista.
Il fascismo di Gallian è, senza dubbio, quello socialista e più sinceramente mussoliniano. S’identifica, infatti, con un vitalismo istintivo, primitivo, puro, utopistico, che lo porta a interessarsi degli strati più umili, a quella sorta di proletariato pre-industriale condannato a vivere in vicoli maleodoranti, pregni di un’umanità sporca, istintiva, destinata a consumare la propria esistenza ai margini della storia. È il collante di quell’idea tutta italiana della strada e dell’irruenza che troverà vita per poi svanire nella tragica stagione della Repubblica Sociale Italiana, nell’ultimo Mussolini restituito al socialismo originario, quello dei bassifondi da dove ha origine ogni emancipazione. Bassofondo, già nell’ambientazione della vicenda, è il romanzo che dà voce a queste esistenze anonime, misere, destinate a soccombere ma che si caratterizzano per un vitalismo che Gallian descrive con un linguaggio barocco ed espressionistico.
Le vicende editoriali del romanzo, nel mostrare la progressiva estraneità dell’autore alla politica del consenso borghese che il regime aveva ormai consolidato, sono la controprova di una stagione costretta alla contraddizione, quella tra l’anima rivoluzionaria e il consolidarsi del Regime. Uscito nel 1935, respinto e ritirato,venne ristampato con numerosi tagli e ripubblicato l’anno dopo con un nuovo titolo, In fondo al quartiere, scelto personalmente da Mussolini. L’opera prendeva il suo titolo originario dall’ambientazione degli ultimi quattro capitoli, che si svolgono in un bordello. È la storia del rapporto tra Lisa Matrona e il giovane Giovanni Battista Timorato Dio. Lei è una merciaia. Da più di venti anni apre le vetrine della sua bottega tra una profumeria e una macelleria, all’estremo limite del rione, dove il viale «si congiunge con l’arteria principale che entra poi nella città».
La donna vive di ricordi. La vita che fluisce su quel marciapiede lei la guarda da molti anni, la stoffa che vende la rivede addosso alla gente. È una stoffa che invecchia e si logora insieme ai loro corpi. Giovanni è uno strano tipo che, una sera, mentre la donna si appresta a chiudere come sempre, entra in negozio, tutto sporco e bagnato.
Come chi è caduto all’improvviso nell’acqua del fiume, Giovanni è malconcio, brutto e sgarbato. Apostrofa malamente la donna, le chiede due soldi di bottoni, mette su un’aria da padrone e se la prende facendone una femmina propria. Inizia così la storia dei due, il ragazzo ha sedici anni ma ne dimostra venti. È alto e grosso. Passa le giornate, seduto in un angolo della bottega, a vigilare. Il vicolo che fa da sfondo rivela un essere irrimediabilmente periferia, il luogo lontano dalla città, il posto più estraneo agli ambienti che contano. E così i suoi abitanti, vermi brulicanti in un ventre grasso e sporco, una sorta di coperta amniotica che avvolge i protagonisti, soprattutto Lisa - che ne fa parte da sempre - invecchiata malamente fino a diventare trascurata e dimenticata come il viale dove affacciano le vetrine della sua bottega. Quando il ragazzo s’insinua nella sua vita da subito, lei lo accetta senza nemmeno pensarci. Si sente nella carne la forza di un’età bambina, quando lui non era ancora nemmeno nato. Giovanni le dona, anzi, le porta in dote, la diversità. È giovane, spregiudicato, la tratta male, si fa mantenere ma, a suo modo, le dona attenzione e cure. Sembra essere lì solo di passaggio: «Io non rimango qui, è una tappa, per chi mi avete preso?», e invece finirà per essere ingoiato dal quartiere (…).
Esistenza bruciata
Le bastonate ci vogliono. Quando la scena cambia e mostra l’esistenza di un’altra umanità, in nessun modo il mondo esterno potrà essere di aiuto o migliorare le condizioni delle loro vite. Il giorno dei morti Lisa Matrona va al cimitero. È vedova da così tanti anni che il suo povero marito onesto (un gran lavoratore, mai che le rivolgesse un rimprovero o una parola cattiva), le è diventato, nel ricordo, un monumento. Lisa si porta il ragazzo, giusto per fargli vedere la tomba del suo sposo, il luogo è gremito di gente, i due si aggirano tra la folla, Lisa non si raccapezza più, non trova la tomba e si dispera. Qualcuno le dice che hanno fatto degli spostamenti, devono allargare il cimitero, bisogna informarsi allo sportello mortuario, «ma non oggi, oggi è festa», insomma: l’ufficio è chiuso. Il ragazzo la porta a mangiare in un’osteria e prova a confortarla a modo suo. La fa bere, le dice che a lui non piacciono le ragazze, vuole le vecchie, è agitato. Lisa è spaventata, sente di essere in sua balia, tutti gli altri clienti sembrano guardare loro, questa coppia improbabile, un giovinastro e una donna anziana. Le bastonate ci sarebbero volute. Giovanni beve e fuma. Ha iniziato a bere a quattro anni e a fumare a sette. L’osteria diviene teatro di una rissa che lo coinvolgerà.
Il ragazzo viene arrestato e condannato a sette mesi. Il carcere, a suon di botte e vessazioni - finalmente le bastonate? - fa di lui un altro individuo. Niente rimane della sua antica rissosità, dei suoi modi violenti. Il carcere lo ha normalizzato. La rivoluzione fascista antiborghese si è annacquata nei vezzi borghesi. Non ha più il bastone. Stordito e imbolsito, Giovanni torna da Lisa e riprende il suo posto nel letto di lei, per abitudine, per non saper dove andare. Anche Lisa, a suo modo compirà la sua parabola di nuova arricchita. Riuscirà a ingrandire la bottega comprando il locale accanto, la profumeria divorata dai debiti del suo proprietario. Al culmine del - l’ascesa sociale, in questa favola truce che non è metafora della memoria italiana, piuttosto specchio, tanto è fedele nel suo percorso, Lisa metterà in livrea un vagabondo negro raccattato per strada da Giovanni. Lei, che mai si è allineata al modello tradizionale della moglie e madre devota - se non nella surreale scena della visita al cimitero - nel finale compie la sua, seppur grottesca, normalizzazione sociale. Sono spariti tutti i bastoni. Si sono svuotate le strade.
Un triste finale
I capitoli finali sono staccati dal romanzo, se non per la presenza di Giovanni che, grasso e imborghesito, passa le sue giornate stravaccato «sulla branda del bordello che gli era stata concessa», mantenuto da Enrichetta la tenutaria. La donna, descritta nella epifania di una prostituta, volgare ed esuberante, generosa del suo corpo ma non più giovane, è la degenerazione o, forse, la sublimazione di Lisa Matrona. Ma è un modo di parlare a nuora affinché suocera intenda, c’è, infatti, l’identificazione con il corpo volgare di Roma tanto detestato dallo scrittore.
Una cortina di silenzio ha avvolto l’esistenza di Gallian nel dopoguerra. L’artista cui Sibilla Aleramo aveva scritto: «Lei è il solo scrittore italiano che qualche volta invidio» fu vittima dell’ostracismo e presto fatto villeggiante dell’oblio. Etichettato come scrittore fascista, si adattò ai mestieri più vari, perfino quello di venditore ambulante di sigarette e visse di pitture negli ultimi anni della sua vita. I suoi soggetti preferiti, va da sé, furono sempre le prostitute. Di strada.