Pietro Calissano, TuttoScienze - La Stampa 19/9/2012, 19 settembre 2012
L’imprevedibile caccia ai geni che ci trasformano in killer - Abbiamo assistito al processo ad Anders Breivik, responsabile delle stragi di Oslo e di Utoya, in cui 77 persone sono rimaste uccise
L’imprevedibile caccia ai geni che ci trasformano in killer - Abbiamo assistito al processo ad Anders Breivik, responsabile delle stragi di Oslo e di Utoya, in cui 77 persone sono rimaste uccise. Dalle tv emergeva un individuo ben vestito, un po’ manierato, con un viso del tutto identificabile con quello di molti suoi coetanei e privo di quei connotati - diremmo lombrosiani - che ci porterebbero ad immaginare come criminale un individuo che ha commesso un massacro simile. Era davvero lui l’uomo che per ore aveva preso di mira e ucciso tutti quei giovani? Di fronte a questa immagine molti sono rimasti confusi e sconcertati: la nostra mente, abituata a meccanismi quasi automatici, talvolta inconsci, di istantanei collegamenti tra ciò che vediamo e ciò che emotivamente elaboriamo a livello cognitivo, rimane quasi ipnotizzata in una specie di schizofrenia indotta. Come se, per qualche istante, anche noi fossimo preda della stessa apparente scissione di personalità che aleggia nella mente di Breivik e di altri che hanno commesso crimini così orrendi e inspiegabili. Il rapido, e a volte tumultuoso, progresso delle conoscenze sul funzionamento del cervello pone un dilemma da tragedia greca a chi si occupa di diritto penale ed è chiamato ad esprimere valutazioni sullo stato mentale degli assassini seriali. L’imputato è portatore di tare genetiche che inducono un comportamento pluri-omicida? La sua crescita adolescenziale ha influito sulla sua formazione, fino a modificarla strutturalmente? Fino a che punto un eventuale consumatore di droghe pesanti può subire danni irreversibili al cervello e condurlo al crimine? Queste domande - e molte altre a cui i giudici o una giuria popolare sono chiamati a rispondere - sono sintetizzabili nella domanda di fondo: quel dato individuo era veramente capace di intendere e di volere? Questione riassumibile in una più generale dalla connotazione etico-filosofica: in che misura un pluriomicida (ma il quesito si estende a tutti noi) è dotato di libero arbitrio al momento del suo gesto e quindi agisce in tutta coscienza? Oggi le conoscenze sul cervello e sulle sue malattie svelano nuove realtà: si è dimostrato, per esempio, che numerose risposte motorie volontarie sono precedute, per una frazione di secondo, dall’attivazione di aree di cui non siamo coscienti, ma che possono interferire sui nostri movimenti. Esiste, in altre parole, un complesso di reazioni, ritenuto totalmente sotto controllo volontario, che, invece, può essere preceduto da attività inconsce. Grazie alle indagini che localizzano determinate funzioni cerebrali in specifiche aree del cervello, quindi, si potranno confrontare sempre meglio le caratteristiche di una mente normale e quelle di un potenziale killer seriale. Ciò implicherebbe che, forse, si potrà davvero definire la normalità e l’anomalia di un comportamento. Non è difficile prevedere che chi sarà incaricato (e in grado) di comunicare queste valutazioni sarà oggetto di infinite critiche e possibili accuse sul piano professionale e personale. E proprio di questi temi si è discusso a Foggia in un convegno organizzato da Ombretta Di Giovine, dal titolo «Neuroscienze e diritto penale», che ha coinvolto giuristi e neuroscienziati. Non è azzardato prevedere che presto si potranno identificare geni o gruppi di geni direttamente collegati a determinati comportamenti oppure a specifiche malattie o psicosi gravi, come la schizofrenia o le forme depressive. In sostanza, il progresso delle nostre conoscenze sul cervello, come spesso accade nella scienza, da un lato è fonte di enormi vantaggi per l’uomo (che, com’è evidente, sempre di più trae grandi benefici per la propria salute) e dall’altro può essere causa di inesauribili discussioni tra chi vorrebbe una pena in rapporto diretto al delitto commesso e chi, invece, in base proprio a quelle nuove conoscenze, sarà indotto ad un «giustificazionismo» assolutorio, anche e soprattutto nei casi dei crimini più terribili e scioccanti.