Kurt Vonnegut, Corriere della Sera 19/9/2012, 19 settembre 2012
Quasi uno scorcio di futuro, nella lettera che presentiamo in questa pagina e che apre il volume Guarda l’uccellino (traduzione di Vincenzo Mantovani, pp
Quasi uno scorcio di futuro, nella lettera che presentiamo in questa pagina e che apre il volume Guarda l’uccellino (traduzione di Vincenzo Mantovani, pp. 256, € 18), 14 racconti inediti di Kurt Vonnegut in libreria da oggi per Feltrinelli, che continua nella pubblicazione delle opere dello scrittore. Nella missiva datata 1951, Vonnegut annuncia a un ex compagno di college (la Cornell), S. Miller Harris, la decisione presa nel 1950 di lasciare il lavoro alla General Electric per diventare scrittore a tempo pieno. E lo fa con la sua peculiare ironia («Troverò ardore, fiducia e nuovi pregiudizi»): tra l’altro il «professor Slotkin» di cui qui rievoca (forse inesistenti) insegnamenti d’altri tempi, pare già della genia di un personaggio come Kilgore Trout, l’eroe de La colazione dei campioni, uno dei suoi romanzi più celebri. Ida Bozzi Caro Miller, ho pensato, un po’ confusamente, a una cosa che volevo aggiungere all’ultima lettera che ti ho scritto. È questa faccenda della scuola: scuola di pittura, scuola di poesia, scuola di musica, scuola di scrittura. Per un paio d’anni dopo la Prima guerra mondiale ho studiato al dipartimento di Antropologia dell’Università di Chicago. Su istigazione di un brillante e nevrotico docente di nome Slotkin, mi interessai al concetto di scuola (spiegherò cosa intendo tra un minuto) e decisi di fare una tesi sull’argomento. Scrissi una quarantina di pagine, basate sulla Scuola cubista di Parigi, e poi i professori mi dissero che avrei fatto meglio a scegliere qualcosa di più strettamente antropologico. Mi suggerirono piuttosto fermamente (con l’astensione di Slotkin) di interessarmi all’Indian Ghost Dance del 1894. Poco dopo rimasi al verde e firmai con la General Electric, e quanto alla Ghost Dance non andai mai oltre lo stadio degli appunti (sebbene fosse maledettamente interessante). Ma l’idea di Slotkin sull’importanza della scuola mi restò appiccicata alla mente, e ora mi sembra pertinente a te, a me, a Knox, a McQuade e a chiunque altro ci solleciti a nutrire un interesse personale nelle sue fortune letterarie. Ciò che Slotkin diceva era questo: nessuno di quelli che sono arrivati alla grandezza nelle arti ha agito da solo; ognuno di loro era il numero uno di un gruppo di persone affini. Questo funziona bene per i cubisti, e Slotkin aveva molte valide testimonianze per applicarlo anche a Goethe, Thoreau, Hemingway e tanti altri autori di ogni genere. Se non è vero al cento per cento, è abbastanza vero per essere interessante, e forse utile. La scuola dà all’uomo, diceva Slotkin, l’enorme coraggio che ci vuole per applicarsi alla cultura. Gli dà morale, esprit de corps, le risorse di molti cervelli e — forse la cosa più importante — sicurezza e unilateralità. (La mia versione di quello che diceva Slotkin quattro anni fa è abbastanza soggettiva: dunque, diciamo che Vonnegut, copiando da Slotkin, dice così). A proposito di questa unilateralità: sono convinto che nessuno può combinare qualcosa nelle arti se diventa soavemente ragionevole, vedendo tutti gli aspetti della questione, perdonando tutti i peccati. Slotkin aggiungeva che nelle arti una persona non può far a meno di appartenere a qualche scuola: buona o cattiva che sia. Io non so a quale scuola appartieni tu. La mia scuola attualmente è formata da Littauer & Wilkenson (i miei agenti) e Burger, e nessun altro. In mancanza di un sostegno da altri settori, io scrivo per loro: roba altisonante di buona qualità per le riviste in carta patinata. Sono cinque settimane che lavoro in modo autonomo. Ho riscritto un romanzo breve e sfornato un racconto brevissimo e un paio di pezzi di 5.000 parole. Qualcosa si venderà, probabilmente. Oggi è domenica, e mi faccio una domanda: Cosa comincerò domani? So già qual è la risposta. So anche che è la risposta sbagliata. Comincerò qualcosa che possa piacere a L&W, Inc., e a Burger e, a Dio piacendo, alla MGM. L’ovvia alternativa è, naturalmente, qualcosa che possa piacere all’«Atlantic», a «Harper’s» o al «New Yorker». Riuscirvi vorrebbe dire sfornare qualcosa alla maniera di questo o quello, e io potrei esserne capace. Ho detto “potrei”. Equivale a iscriversi a una della dozzina di scuole che sono nate dieci, venti, trent’anni fa. Il piacere consiste in gran parte nell’avere spacciato un falso credibile. E, naturalmente, se ti pubblica l’«Atlantic» o «Harper’s» o il «New Yorker», perdio, devi per forza essere uno scrittore, perché lo dicono tutti. Non c’è concorrenza con i lauti assegni delle riviste in carta patinata. In mancanza di qualcosa di più allettante, resto attaccato ai soldi. Così, detto questo, dove sono? Ad Alplaus, New York, immagino, dove vorrei trovare un po’ di ardore e di fiducia e di originalità, e dei nuovi pregiudizi. Come diceva Slotkin, queste cose sono prodotti collettivi. Non è questione di trovare un Messia, ma che un gruppo ne crei uno: ed è un lavoro duro e ci vuole un po’ di tempo. Se questo succede in qualche posto (non a Parigi, dice Tennessee Williams), vorrei entrarci anch’io. Darei il mio braccio destro per essere pieno di entusiasmo. Dio sa che c’è molto da scrivere: oggi più di prima, sicuramente. Tu molli, io mollo, tutti mollano, mi pare. Se Slotkin ha ragione, forse la morte dell’istituzione dell’amicizia è la morte dell’innovazione nelle arti. Questa lettera è una cagata sentenziosa, piena zeppa di autocommiserazione. Ma è proprio il tipo di lettera che sembrano prediligere gli scrittori; e dal momento che ho lasciato la General Electric, se non sono uno scrittore io non sono più nulla. Tuo, Kurt © by The Kurt Vonnegut, Jr., Trust © Giangiacomo Feltrinelli Editore Per gentile concessione di Luigi Bernabò Associates srl