Andrea Sorrentino, la Repubblica 19/9/2012, 19 settembre 2012
MILANO
Per sempre giovane, anzi troppo giovane. Da una vita Andrea Stramaccioni è in anticipo, o la vita gioca d’anticipo con lui. A volte a costo di atroci disillusioni, di cui fatica ancora a parlare: «Ero un calciatore, sì: difensore centrale bravo a impostare, gli stage con l’under 15 con la classe ‘76 di Totti e Nesta, poi le giovanili del Bologna e subito il salto eccezionale: a 15 anni gioco con la Primavera. È l’inizio della fine, perché la differenza d’età quando sei così piccolo si sente, io giocavo contro i ‘73, contro Vieri… Così mi capita un infortunio drammatico, da trauma: 2’ dalla fine a Empoli in Coppa Italia, entro in scivolata e porto via il pallone ma il tacchetto mi rimane nel terreno e l’avversario, senza volerlo, mi frana sul ginocchio. E mi spacca tutto: tre legamenti rotti. Me ne ricostruiscono solo uno, altrimenti mi si bloccherebbe la crescita,
ma il ginocchio rimane instabile e inizia il calvario. Dopo la terza operazione da Mariani, fatta almeno per riuscire a camminare normalmente, smetto. E non voglio più sentir parlare di calcio, la botta è stata troppo forte. Pensi che a 15 anni mi voleva la Roma e molto tempo dopo, negli uffici del club, vidi la relazione su di me: “da prendere”, c’era scritto».
Poi interviene la mamma.
«È stata la figura chiave: continuava a rompere le scatole a Canovi, il mio ex procuratore, finché lui le dice: “Tuo figlio è intelligente e ha giocato: perché non insegna ai bambini?”. Inizio con lo Zeta Sport, Allievi Sperimentali classe ‘85, dodici
giocatori. Sono partito dai campi di terra, è il caso di dirlo: ha presente le partite con le due squadre che hanno la stessa maglietta e solo i pantaloncini diversi? Quelle…».
Poi Romulea, giovanili della Roma, gli scudetti e i talenti come Florenzi e Bertolacci, la Primavera dell’Inter e la serie A. Tutto in pochi anni: lei è un predestinato della panchina, dice chi la vede lavorare.
«Questo non lo so. Ma il campo di calcio è il luogo dove mi sento davvero più a mio agio. Mi inorgoglisce il fatto che tutte le mie squadre, dall’inizio, avevano un’impronta chiara, e lo notavano sempre tutti».
Ma che differenza c’è ad allenare quelli veri, dopo i ragazzi?
«Qui si gestiscono uomini. In una squadra giovanile parli con ragazzi della stessa età, con dinamiche comuni. Invece con i grandi è diverso, più complesso e articolato. Soprattutto per me: ho bisogno di avere una relazione umana intensa col giocatore, devo trasmettergli bene le idee che ho dentro perché lui le possa trasferire in campo, ho bisogno di dialogo. Mi salva il carattere: sono diretto, nel bene e nel male. Finora, in un piccolo bilancio dei miei
primi sei mesi all’Inter, credo che qui abbiano apprezzato le mie idee chiare, avvolte nell’umiltà dell’approccio».
Senta, stamattina ci siamo rinfrescati la bocca col colluttorio…
(fa la faccia imbronciata)
Sorrida: perché ha detto che bisogna sciacquarsi la bocca prima di considerare
l’Inter una provinciale?
«Venivamo da due settimane in cui ne avevamo sentite di tutti i colori, più o meno giustamente, anche sull’allenatore. Posso accettarlo. Però mi arrabbio se sento critiche strumentali, e cattive. Se dicono che vinciamo da provinciali, facendo sottintendere che per
vincere dovremo avviarci a una dimensione di quel tipo, non ci sto. È una mancanza di rispetto per il mio club. Noi siamo l’Inter. Facciamo il 62% di possesso palla e siamo provinciali? Se lo dici, è un attacco strumentale. Se parliamo di tattica, cioè di calcio, accetto che mi si dica: hai rinunciato a un attaccante per un centrocampista, ma è un discorso diverso. L’Inter non ha cambiato idea di gioco, che è basata sul possesso palla, sulla ricerca delle fasce: a Torino abbiamo solo interpretato il nostro calcio con giocatori diversi, più difensivi, perché non avevo al massimo Palacio, che avrebbe giocato, né Alvarez. Parliamo di calcio, dico io. Né sento dire a nessuno che contro Roma e Torino abbiamo pressato alti nell’area di rigore
avversaria».
Quante diverse Inter vedremo?
«Non molte. Abbiamo nove giocatori nuovi più l’allenatore, ci dobbiamo conoscere. E non ho una rosa omogenea, intendo con due giocatori per ogni maglia. Però è una disomogeneità che possiamo capitalizzare, farla diventare un vantaggio: schierando Milito-Sneijder, Milito-Cassano o Milito-
Palacio abbiamo differenti sviluppi di gioco, quindi siamo più imprevedibili per gli avversari ».
Quale secondo lei il modulo migliore per coprire il campo?
«Quello in cui puoi sceglierti tutti i giocatori… per poi disporli in campo nel modo che secondo me è il più razionale: quattro difensori, tre centrocampisti di cui uno con caratteristiche offensive, due esterni che saltino l’uomo, una punta centrale. È il punto d’arrivo del mio percorso, anche se detto da uno di 36 anni mi fa sembrare un salame, e so che a questi livelli non ho esperienza. Ma questo è ciò che il campo e i calciatori che ho allenato mi hanno trasmesso finora
».
Gli allenatori italiani sono…?
«Ancora i più bravi del mondo tatticamente. La scuola di Coverciano è unica».
L’allenatore più bravo è…?
«Alt. Chi è un allena-
tore bravo?».
Quello che dà un’impronta chiara, o quello che vince, o magari tutte e due le cose insieme. Ma per non essere scontati, diciamo quello che dà un’impronta…
«Allora per me quelli più bravi, nati in Italia e che ho visto lavorare, sono Luciano Spalletti e Giampiero Ventura. Poi Sacchi, ovvio: ha rivoluzionato il calcio e mi stima pure, mi dà consigli, mi voleva nelle giovanili della nazionale. Ma non l’ho visto lavorare».
Anche Zeman è uno che dà una bella impronta, giusto?
«Parlavamo di allenatori nati in Italia, o no?».