
Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Bel discorso di Napolitano su Cavour e l’unità d’Italia, ieri a Sàntena.
• Ma il presidente non stava male? Ho sentito in televisione…
Il presidente s’è sentito male proprio mentre visitava a Sàntena la cappella deve sono sepolti Cavour e i suoi familiari. Un mal di stomaco. Gli hanno portato una sedia, fatto bere un bicchier d’acqua, la folla assiepata di fianco al parco del castello ha aspettato un quarto d’ora e alla fine il Capo dello Stato è apparso, molto affaticato, senza cravatta. Gli altri oratori (c’era, oltre tutto, la curatrice dell’epistolario cavouriano, Rosanna Roccia, e Gilles Pécout, il giovane studioso francese che sta preparando una biografia del conte vista dal lato transalpino) hanno rinunciato a parlare per permettergli di rientrare subito a Roma. E il presidente, restando seduto, ha pronunciato un discorso breve e, direi, perfetto sia dal punto di vista politico che da quello storico. Ha invitato a lasciar perdere ormai le antiche divisioni tra cavouriani, democratici, mazziniani e garibaldini. E a non inseguire nemmeno immaginari sogni di rivincita neoborbonica. L’origine del nostro Paese va invece ancora studiata e capita per cogliere il valore dell’unità, costruita da tante forze diverse, e raggiunta grazie alla sapienza politica con cui il conte di Cavour seppe governare avvenimenti tanto diversi, forze così contrastanti. Il presidente non ha mancato un’allusione alle spinte antiunitarie dei leghisti. «Unità nazionale e coesione sociale - ha sottolineato il Capo dello Stato - non significano centralismo e burocratismo, non significano mortificazione delle autonomie, delle diversità e delle ragioni di contrasto e confronto sociale e politico. Unità e coesione possono anzi crescere solo con riforme e loro conseguenti attuazioni, con indirizzi di governo a tutti i livelli, con comportamenti collettivi, civili e morali, che siano capaci di rinnovare la società e lo Stato, mirando in special modo ad avvicinare Nord e Sud, ad attenuare il divario che continua a separarli». Senza vacuità retoriche – ha aggiunto – e senza autolesionismi.
• Come mai questo strano paese, Santena?
E’ un centro a 18 chilometri da Torino. La famiglia aveva lì una bella villa-castello, ereditata nel ”700. Il conte non ci veniva spesso (preferiva Leri, nel Vercellese), ma qui sono conservate le sue carte, qui ha sede la Fondazione e qui ogni anno si celebra l’anniversario della morte, con una piccola cerimonia di volontari fedelissimi alla sua memoria. 6 giugno 1861, appunto. Quest’anno, per la verità, ricorre il bicentenario della nascita, che avvenne nel 1810. Ma il giorno del compleanno non si presta, cadendo il 10 di agosto, data troppo da vacanze. Così, curiosamente, s’è celebrato il bicentenario della nascita nel 149° della morte.
• Come si potrebbe rispondere alla vecchia questione che «fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani»? I filoborbonici dicono che l’unità d’Italia fu un’annessione del Sud da parte dei ricchi nordisti, che – massacrando - depredarono di ogni tesoro il Mezzogiorno. Quelli della Lega, al contrario, sostengono che per tutta la storia d’Italia il Sud ha vissuto alle spalle del Nord…
Non c’è solo questo, c’è anche la questione del carattere degli italiani, cioè, in definitiva, se gli italiani siano o no ”un popolo” nel senso stretto della parola. Proprio ieri, sul Corriere della Sera, Giuseppe Galasso, il grande storico del nostro Mezzogiorno, recensendo un saggio sull’italianità di Silvana Patriarca, ha dato una risposta assai brillante, e molto profonda, a quella questione posta da Massimo d’Azeglio. Il punto sull’«Italia fatta e gli italiani da fare» è giudicato da Galasso «errato. Gli italiani c’erano da secoli. Quel che bisognava fare era proprio l’Italia intesa come unità politica nazionale in regime di libertà; come Paese stato moderno nelle sue strutture e infrastrutture, come soggetto attivo, rilevante e autonomo della politica e dell’economia internazionale, come società liberale e moderna nelle sue mentalità e nei suoi comportamenti. Una tale Italia – conclude Galasso – è finora in gran parte ancora da fare».
• Quindi sarebbe un problema di classe dirigente.
Leghisti e neoborbonici parlano allegramente – quando vogliono fare gli estremisti – di secessione. Ma che accadrebbe se l’ipotesi di una spaccatura del Paese, magari per gli sconquassi determinati dalla crisi economica, diventasse realistica?
• Potrebbe diventare realistica?
Potrebbe, dato che le differenze tra Nord e Sud sono ancora oggi così grandi. E certo la spaccatura diventerebbe meno probabile se si prendesse atto, al di là dei torti e delle ragioni di ciascheduno, che comunque il Paese esiste da un secolo e mezzo, e che in questi 150 anni molta strada è stata fatta, grazie agli uni e agli altri. [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 7/6/2010]
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