Roberto Volpi, Ii Foglio 07/06/2010, 7 giugno 2010
GENETICA NON PROFETICA
Articolo di Elena Dusi, Repubblica del primo luglio: ”La mappa dei geni della longevità acquista contorni più nitidi. Fino a ieri ne conoscevamo solo una manciata. Ora uno studio su ”Science’ offre una pioggia di 150 mutazioni genetiche caratteristiche dei centenari che sono riusciti a invecchiare senza malattie. Con questa mole di dati i ricercatori dell’Università di Boston hanno messo a punto un test della longevità: l’analisi del Dna anche in un neonato potrà prevedere (ovviamente al netto di incidenti o malattie acquisite per cause ambientali) quanti anni vivrà quell’individuo. L’accuratezza di questo test è finora stimata al 77 per cento”.
Domanda: che razza di ipocondriaco deve essere questo tizio per sottoporsi a un test del genere? Un test che la stessa principale ricercatrice, Laura Bastiani, ammette essere mediocremente accurato (dire che l’accuratezza stimata ”arriva” al 77 per cento significa che quella pratica, quando ci si ritroverà alle prese con la moltitudine di esami sul campo, sarà magari del 50 per cento – come tirare una monetina per aria) e men che mediocremente predittivo, giacché ”non tiene conto dei fattori ambientali e dello stile di vita”?
E invece no, perché Roche e Ibm se ne aspettano in quantità stratosferiche e, per definizione, un ipocondriaco in larghissima compagnia cessa di esser tale in quanto le schiere degli ipocondriaci si trasformano, d’incanto come nelle fiabe, in cittadini virtuosi e attenti che ”ci tengono alla propria salute”. Perché Roche e Ibm? Perché i due colossi nei rispettivi settori hanno appena annunciato una partnership per sviluppare un sequenziatore del Dna basato su nanopori, capace cioè di decodificare e leggere le molecole di Dna man mano che vengono fatte passare attraverso un poro di dimensioni nanometriche in un chip di silicio, una tecnica (denominata ”transistor Dna” che porterà a completare la sequenziazione, ovvero a decodificare il Dna umano individuale, in modo rapido ed efficiente.
’Grazie all’integrazione di competenze di biologia computazionale, biotecnologia e nanotecnologia, ci stiamo avvicinando a produrre un sistema in grado di tradurre rapidamente e accuratamente il Dna in informazioni genetiche rilevanti dal punto di vista medico”, spiega Ajay Royyuru, Senior Manager del Computational Biology Department in Ibm Research.
Eccole dunque le parole magiche: ”Informazioni genetiche rilevanti dal punto di vista medico”. Il fatto è che sono trascorsi dieci anni dal completamento della sequenziazione del genoma umano e le parole sono ancora quelle, precise al millimetro. Nel frattempo non è successo niente di significativo, tanto che il decennale è passato nel silenzio più assordante (Madonna che silenzio c’è stasera): niente articoli celebrativi, servizi in televisione, interviste a quello e a quell’altro scienziato sulle riviste, mirabolanti promesse di ulteriori successi a breve. C’è poco da promettere, se fino ad ora di successi non se n’è vista neppure l’ombra. Così siamo ancora al ”gene della longevità”, figurarsi. E’ da quando cominciarono, vent’anni fa, con il ”Progetto genoma” che ce la menano (proprio così, l’ineleganza dell’espressione traduce al meglio il diluvio di dichiarazioni pretenziose e tutte eguali che ci siamo sorbiti e ancora ci tocca sorbire) con la longevità: ed ecco profilarsi all’orizzonte un test che a lume di naso è decisamente meglio perderlo che trovarlo.
Edoardo Boncinelli, forse il più famoso genetista italiano, è stato il più svelto a fiutare il vento di delusione e a correre ai ripari. Lo ha fatto con un articolo sul Corriere della Sera del 14 giugno 2010 per dire che in effetti ”non è successo granché (…). Non è stata scoperta nessuna cura per il cancro o per la malattia di Alzheimer, non è stata sostanzialmente migliorata la condizione delle persone affette dal diabete o da altre malattie molto diffuse, che noi chiamiamo multifattoriali, tutte cose queste che erano state promesse e sbandierate. Quello che soprattutto è mancato in questi anni è stato il grande avanzamento nella predicibilità delle malattie multifattoriali come il diabete, molte forme di tumore, l’ipertensione, la propensione per alcune malattie degenerative e via discorrendo. I metodi per ottenere questo risultato si sono moltiplicati e vengono offerti a prezzi accessibili, ma il cambiamento epocale non c’è stato. Il momentaneo fallimento è dovuto ad una sopravvalutazione dell’affidabilità del metodo”. Ma, detto questo, ecco Boncinelli ribadire che: ”Non si sarà scoperta la ”cura’ del cancro, ma tutto l’argomento tumori ha fatto un balzo in avanti di proporzioni gigantesche, anche sul piano delle applicazioni cliniche. Conoscere quali geni possono produrre un tumore o contribuire ad aggravarne l’andamento è e sarà di enorme importanza: non ci si accontenta più di una diagnosi di tumore, ma si affianca a tale diagnosi quello che viene definito il ”profilo genetico’ di quel determinato tumore, con importanti ricadute sulla prognosi e sul trattamento. Sono inoltre avanzate tutte le tecniche di diagnosi sempre più precoce del tumore stesso, una linea di tendenza che potrebbe anche portare alla lunga all’inutilità di vere e proprie cure, perché il tumore ”snidato’ molto precocemente potrebbe essere rimosso chirurgicamente”.
Appunto. Dall’annuncio, dato il 26 giugno del 2000, della sequenziazione del genoma ci fu spiegato che questa conoscenza avrebbe aperto prospettive formidabili alla medicina genomica, innanzi tutto per prevenire e riparare le malformazioni congenite cromosomiche, ovviando così alle tante malattie rare e rarissime che dipendono dall’imperfezione o dalla mancanza o dalla doppia presenza, nel concepito, di un solo, singolo gene. Oggi, quando ancora niente di tutto questo è neppure alle viste, comincia a serpeggiare una certa delusione, ma prima ancora un bel po’ di scetticismo. Che le cose non siano poi così ovvie e quasi automatiche come sembravano, del tipo si prende un gene sballato o mancante o doppio e lo si sostituisce con un corrispondente gene giusto? E se non sono semplici per le malattie che dipendono da un solo gene, figurarsi per tutte quelle altre, che invece rare non sono, che non soltanto dipendono da intere costellazioni di geni, ma anche dai loro legami reciproci e dalla loro interazione con l’ambiente dell’individuo e dai modi stessi di procedere e realizzarsi della sua vita.
Tutta questa tematica era già stata esplorata con grande chiarezza e spirito critico da Bertrand Jordan, eminente genetista francese, nel suo lavoro dal significativo titolo di ”Gli impostori della genetica” (Einaudi, 2001). Ma per un genetista alla Jordan ce ne sono cento che alla Jordan non sono affatto, cosicché la battaglia è impari e il totem del Dna con contorno di sequenziazione e predizione continua e continuerà ad attirare sia schiere di ricercatori indefessi alla ricerca dell’immortalità e della salute per sempre (e della felicità, della criminalità, del conservatorismo o all’opposto dello spirito rivoluzionario e cosette del genere inscritte, ne sono convinti, nei geni) che grandi gruppi industriali, del tipo della Roche e dell’Ibm, che hanno scommesso sulle prospettive radiose che l’epopea del Dna avrebbe aperto e non sono certo disposti a voltare pagina da un giorno all’altro. Anche perché dove la trovano un’altra pagina come la sequenziazione del Dna spacciata fino ad oggi come ricolma di formule magiche che, neppure così difficili da decifrare, sarebbe bastato pronunciare per cambiare il destino dell’uomo e del mondo intero da così a così?
Ma ora che il fallimento riguarda anche i metodi di ”predicibilità” delle malattie come il diabete, il tumore, l’ipertensione, dimostratisi inaffidabili, su cosa si possono ancora fondare le residue speranze? Boncinelli pensa per un verso alle possibilità terapeutiche che potranno derivare dalla conoscenza del ”profilo genetico” del tumore e per l’altro all’avanzamento di ”tutte le tecniche di diagnosi sempre più precoce”. La prima possibilità sembra l’unica promettente. Ma appare appannata proprio da quel fideismo, nei confronti di tecniche di diagnosi sempre più precoce, che esce ulteriormente rafforzato dalla ricerca sul genoma. Come se l’efficacia di quelle tecniche non fosse che l’automatica risultante di un sempre più forte potere di risoluzione, e dunque di una sempre maggiore capacità di captare la precocità, mentre tutto tende a dimostrare che è vero esattamente l’opposto: più la diagnosi è precoce e più è portata a sbagliare non in un senso soltanto, ma addirittura in due: (a) perché la precocità è sempre più difficile da leggere e interpretare della ”maturità”, e lo è tanto più quanto più è precoce (b) perché della precocità davvero precoce non si può dire affatto dove andrà a parare, come evolverà, se diventerà malattia o no, se si fermerà, se addirittura non regredirà, venendo riassorbita dall’organismo. Viene il sospetto che i grandi scienziati non si abbassino a leggere una ricerca, un rapporto, uno studio che parli di ”ciccia”, e non di teorie. Magari se studiassero si accorgerebbero, che so, che per diagnosticare un tumore al seno in fase precoce occorre in Italia sospettare di tumore al seno – sbagliando – 81 donne, che salgono a 123 tra le cinquantenni e a 134 nel Mezzogiorno, e che dunque non c’è proprio modo di cogliere un vantaggio in queste diagnosi ”sempre più precoci”. O, se non si fidano degli studi e dei dati italiani, potrebbe utilmente riflettere su altri studi e altri dati, come ad esempio quelli pubblicati alla fine di marzo del 2009 dal New England Journal of Medicine, due lavori sul Psa, l’esame per diagnosticare il tumore alla prostata, uno condotto in Europa e uno negli Stati Uniti, nei quali complessivamente sono state studiate 250 mila persone. Ricavandone un risultato sorprendente (ma mica poi tanto, a sapere come funziona il Psa): l’esame del Psa non solo non salva la vita ma scoprirlo alto, fuori dalla norma, e farsi curare di conseguenza, comporta sofferenze e disfunzioni anche gravi, spendendo molto e senza ricavarne benefici di sorta.
Ora, in nome di cosa ci si augura, sulla scia dei test del Dna, un ”grande avanzamento” della predicibilità? Predicibilità, forma arcaica che sta per predittività, è quella capacità di ”annunciare in anticipo”, di ”preannunziare”, di ”preconizzare” che dovrebbe discendere rinvigorita dalla lettura del genoma individuale, piuttosto che, com’è stato finora, da un qualche esame diagnostico. E mentre un esame diagnostico mostra pur sempre qualcosa che c’è (anche se l’immagine di questo qualcosa andrà interpretata, anche se non si sa, specialmente se troppo precoce, se e come evolverà), la lettura del genoma mostrerà, al più, dei geni che, se in certe forme e associazioni tra di loro, saranno giudicati indicativi della possibilità di portare a un determinata malattia – che però non c’è. Magari si potrà ricavare, se il grande avanzamento auspicato da Boncinelli si realizzerà, anche qualche indicazione più precisa, del tipo con quale probabilità questa malattia insorgerà prima di un certo numero di anni a venire. Tutto qui. Neppure un super, non grande ma super, avanzamento potrà mai portarci, con la predittività, più in là di così, non potrà garantirci che una certa malattia ci sarà e in che tempi, non potrà assicurarci neppure che ci sarà o che non ci sarà. Perché i geni non sono tutto, perché c’è l’ambiente, perché c’è la vita vera, perché ci sono le innumerevoli interazioni tra patrimonio genetico e ambiente che vengono di continuo ”shakerate” da una vita che è diversa, e come tale non riproducibile, da individuo a individuo.
Rimarremo pur sempre, con la predittività e la medicina predittiva, avanzamenti o non avanzamenti, nella probabilità bella e buona, per non dire nell’azzardo. Si ridurrà l’area dell’azzardo? Probabile, anzi sicuro, ma azzardo probabilistico era, è e resterà. Tant’è che già una linea di attacco comincia a profilarsi su questi temi, e sussistono pochi dubbi che lo stato (etico) si muoverà utilizzando tutti i suoi strumenti, pedagogici e meno, fino a quelli costrittivi, per cercare di convincere il cittadino di quanto gli convenga correre ”comunque” l’azzardo della predittività piuttosto che non quello rappresentato dalla eventualità del sopraggiungere della malattia quand’essa è già in una fase critica.
Non dovrebbe sfuggire ad alcuno il fatto che la presa psicologica di uno stato (etico) che aggredisce l’idea stessa, la possibilità, il fantasma della malattia, per cercare di scongiurarne la sua discesa con annidamento nel corpo degli uomini è molto, incomparabilmente superiore alla presa psicologica di uno stato (non etico) che insista a curare le malattie quando e come esse si manifestino senza porsi – o senza potersi porre, per mancanza di concrete possibilità e prospettive tecnico-scientifiche e culturali – il problema del loro completo e definitivo annientamento, della loro definitiva ”eradicazione” dal nostro universo. Ma anche questa presa psicologica teoricamente formidabile dello stato (etico) sullo spirito degli uomini trova pur sempre un limite nel riscontro dei fatti. E i fatti mancano, poco da farci, non ci sono, non arrivano e non vogliono saperne di arrivare. In un decennio di Dna sequenziato non c’è stata una volta, dicasi una, in cui si sia potuto parlare di ”importante risultato raggiunto”. Cosicché a questo siamo, dopo dieci anni di non risultati: che dovremmo credere che nel Dna è scritto che camperemo fino a 120 anni. In media, pro capite. Genetica, dice. Alla luce di questi dieci anni, vogliamo chiamarla magia?