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 2010  giugno 07 Lunedì calendario

HAIER, COSI’ NASCE IL BRAND CINESE

Al marchio tengono molto, qui alla Haier. E infatti il logo rosso (in ideogrammi e caratteri occidentali) a Qingdao è onnipresente: cartelloni pubblicitari, centri commerciali, strade e grattacieli. Ma bisogna percorrere i dieci chilometri della superstrada a sei corsie – Haier Road, naturalmente – che porta al quartier generale del primo produttore al mondo di elettrodomestici per capire la portata dell’ultima sfida che la Cina sta lanciando al mercato globale.
Qingdao è la capitale della provincia di Shandong che si trova nell’est della Cina. L’area metropolitana ha oltre 7 milioni e mezzo di abitanti. Il parco industriale che si stende su 2.300 ettari di capannoni, uffici, palazzine in cui vivono migliaia di operai e laboratori di ricerca è un monumento che il colosso cinese ha elevato a se stesso. E che è dominato dalla simbologia. Il centro direzionale ha quattro pilastri rossi, 12 piani, 365 finestre: stagioni, mesi e giorni dell’anno. "Vuol dire che il mercato cambia ogni giorno e noi dobbiamo adattarci rapidamente", spiegano al visitatore. Altra metafora: la corporate university sorge su un corso d’acqua artificiale. "Significa che il mercato è come il mare, dobbiamo muoverci rapidamente per dominarlo". Ed è quello che alla Haier stanno facendo. Nel 2009 il gruppo guidato con pugno di ferro dal 61enne Zhang Ruimin ha conquistato – dati Euromonitor – una quota di mercato, nel settore degli elettrodomestici "bianchi" (lavatrici e frigoriferi), del 5,1 per cento – nel 2001 era all’1,7 – strappando a Whirlpool la leadership mondiale. Il fatturato globale tocca i 14 miliardi di euro, con una crescita nell’ultimo anno del 4,5 per cento. I pezzi venduti ogni anno sono oltre 50 milioni. E il bello deve ancora arrivare. Perché dopo aver inondato con i propri oggetti (una gamma che arriva ai televisori a led, ai condizionatori d’aria, ai computer e ai telefonini) il vivacissimo mercato domestico cinese gli uomini di Qingdao si stanno rapidamente espandendo nel resto del mondo. "Vendiamo all’estero il 25 per cento del nostro prodotti, e più della metà del fatturato estero riguarda Europa e Stati Uniti", spiega Zhang Tieyan, la manager che dirige il dipartimento "Branding & Marketing" di Haier. "Tutto sta cambiando. Il made in China – aggiunge – non è più solo low cost ma comincia ad essere anche tecnologia e design. Ed è questa la direzione nella quale vogliamo crescere".
La questione è cruciale. La Cina finora ha penetrato i mercati mondiali limitandosi a produrre per conto terzi. Crescendo con virulenza, ma tenendo per sé una fetta tutto sommato piccola della torta che contribuisce a sfornare. L’iPad, la tavoletta magica della Apple che sta facendo impazzire il mondo, è quasi esclusivamente assemblato in Cina. Ma sui 799 euro di prezzo finale del modello top restano in loco appena 25 euro. Troppo poco, si comincia a pensare da queste parti. E allora bisogna cambiare strategia, e affermare brand cinesi. Cosa non facile. Ci ha provato Lenovo negli anni passati, acquisendo la divisione computer di Ibm, con risultati altalenanti. Il punto è che ai consumatori occidentali va benissimo acquistare prodotti cinesi, purché il marchio – come dire la garanzia finale di qualità del prodotto – sia europeo o americano. Altrimenti si storce il naso. La battuta che circola è la seguente: "Sapete qual è il brand cinese più famoso al mondo? Made in China". Appunto.
In verità secondo le rilevazioni più recenti il marchio cinese più conosciuto all’estero non è più Lenovo o Air China ma proprio Haier. E qui torniamo a Qingdao, dove l’obiettivo di sfondare oltre le mura di casa è diventato quasi un’ossessione. Il cammino è stato lento e irto di ostacoli. Perché vendere elettrodomestici in occidente significa persuadere un pubblico esigente e dai gusti raffinati. E i prodotti cinesi non sono mai stati l’ideale da questo punto di vista. Così Haier ha deciso di capire dal di dentro i nostri mercati. Ha iniziato nel 1999 quando ha aperto a Camden, in Carolina del Sud, uno stabilimento di produzione. Poi, nel 2001, è sbarcata in Italia, acquistando a Campodoro, in provincia di Padova, uno stabilimento in crisi della famiglia Meneghetti. Una delocalizzazione al contrario, all’inizio. Che ha dato risultati poco brillanti: assemblare in Italia un frigorifero cinese non vuol dire fare un prodotto italiano. E di conseguenza non vuol dire convincere gli italiani a comprarlo.
Nel 2006 la strategia è cambiata e l’Italia è diventata il cuore di un progetto diverso. Il frigorifero viene progettato con standard occidentali, con tecnologia avanzata ma soprattutto con design italiano. E può tranquillamente affrontare la concorrenza, forte di prezzi decisamente più bassi. Dagli oltre mille euro di un frigorifero europeo di media qualità si passa ai circa 650 di uno marchiato Haier. "Abbiamo scelto di essere presenti con stabilimenti produttivi in Italia perché vogliamo capire da vicino le esigenze dei consumatori. Sappiamo che rimanere indietro sul fronte dell’innovazione per noi sarebbe imperdonabile, E per questo accettiamo volentieri un costo del lavoro decisamente più alto di quello cinese", dice Sun Shubao, 33 anni, general manager di Haier Europe. I numeri sono naturalmente ancora bassi, il fatturato 2009 in Italia è arrivato a 28 milioni di euro. Ma insomma, il primo passo è fatto. Anche perché altri prodotti stanno arrivando. C’è grande aspettativa per esempio, per i nuovi televisori a led che da qualche mese sono disponibili, ancora una volta a prezzi interessanti, nei nostri centri commerciali.
L’esperienza del design italiano, fra l’altro, sta avendo ricadute profonde sul gigante di Qingdao. I nuovi elettrodomestici concepiti in Veneto piacciono molto alla borghesia metropolitana cinese, il cui potere d’acquisto cresce in misura esponenziale. Non è un caso che Haier abbia lanciato, in Cina, un nuovo brand per i frigoriferi di alta gamma. Il nome rivela già tutto delle intenzioni: Casarte. Più italiano di così.
Eppure molto cinese è la mentalità che si respira nella cittàfabbrica di Qingdao. In tutti i sensi. La retorica dell’aziendalismo in salsa collettivista pervade ogni angolo. E parte dal mito fondativo di Haier. Siamo nel 1984 e il giovane funzionario di partito Zhang Ruimin è appena diventato il direttore di una scalcinata fabbrica di frigoriferi. La sua prima iniziativa è vietare agli operai di urinare ai bordi della linea di montaggio, come usavano fare, e di servirsi della toilette. Poi un giorno, stanco delle continue lamentele dei clienti sul pessimo funzionamento dei prodotti Haier, l’uomo chiama a raccolta gli operai nel cortile del capannone fatiscente e chiede di mettere al centro i frigoriferi difettosi. Comincia lui: afferra un martello e attacca a distruggerli, uno per uno. Infine invita gli operai a fare altrettanto. Finiscono in rottami 76 frigoriferi. Un danno enorme per l’epoca. "Ma il segnale era chiaro. La qualità deve essere il nostro obiettivo principale. Tutto il resto viene dopo", dicono ancora oggi mostrando le foto sgranate di quella giornata storica.
L’immagine da cartolina che Haier vuole dare di sé è però, appunto, poco più che una cartolina. Qui non siamo in quel "Far East" del lavoro senza regole che è buona parte del sistema produttivo cinese. Ma non ne siamo nemmeno completamente fuori. "La fabbrica è dei lavoratori. Il management non dà ordini come accade nella industrie tradizionali ma fornisce risorse ai lavoratori per produrre meglio", spiegano ancora mostrando il modello a piramide rovesciata dello stabilimento Haier. Ma guai a chiedere di spiegare meglio, a provare a capire se Haier è un’industria di Stato. "Non lo è", risponde cortese Zhang Tieyan. privata? "Nemmeno". E allora cosa? " controllata dai suoi stessi lavoratori". E che vuol dire di preciso? "Per voi occidentali è difficile capire". Ma anche per voi spiegare, se è per questo.
Anche capire le condizioni di vita degli operai non è facile. L’eco di orari di lavoro spaventosi, salari da fame, suicidi e scioperi come quelli della Foxconn appare lontana, in apparenza. Gli operai lavorano otto ore al giorno, suddivisi su due o tre turni a seconda della congiuntura – per cinque giorni la settimana. La paga è di 200 euro al mese, quanto basta per campare. Tutto sembra tranquillo. Nella linea di montaggio dei nuovissimi televisori a led i dipendenti appaiono sereni. "Io lavoro in Haier, io sorrido", recita lo slogan del gigantesco manifesto con le facce dei 160 operai del capannone. La bacheca aziendale annuncia matrimoni e compleanni. Una messinscena per impressionare il visitatore occidentale? Chi può dirlo. Di certo non è possibile parlare direttamente con le maestranze. Così come è inutile chiedere spiegazioni sui diritti di chi lavora nello stabilimento che ogni giorno costruisce oltre ottomila tv. Cosa succede se qualcuno si ammala? "Ci sono regole nazionali e aziendali. Ma non so spiegarle di preciso. Sa, non mi sono mai ammalato", spiega il giovane addetto alle relazioni esterne.
Qui d’altronde il lavoro va preso sul serio. In ogni capannone, nella corsia fra le catene di montaggio, c’è una pedana. E al centro della pedana le sagome verdi di due piedi. Ogni mattina i dirigenti dello stabilimento chiamano a raccolta i dipendenti. L’operaio che il giorno precedente si è distinto in fabbrica (che poi è quello che ha tenuto un ritmo di montaggio più serrato) si sistema sulla pedana. Il capostruttura lo elogia pubblicamente e gli conferisce un punteggio. Allo scadere del trimestre, l’operaio con più punti ottiene un premio. "Generi alimentari o un viaggio di un giorno in città per la sua famiglia, che magari vive in un villaggio rurale, o un piccolo extra sullo stipendio", è la spiegazione ufficiale, Questo è ciò che si vede. Ma circola anche un’altra versione. E cioè che esista anche una pedana, con impronte rosse. A salire è la tuta blu che ha fatto peggio, il più lento, quello che ha rotto un pezzo. L’operaio viene duramente rimproverato dal suo capo per interminabili minuti, e umiliato di fronte agli altri. Rituale non confermato ovviamente. Ma comunque significativo. la Cina, bellezza.