Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Oggi raccontiamo la storia di due coniugi che stanno mettendo in subbuglio il mondo politico italiano. Si chiamano Rosetta Costa e Walter Pavan, vivono a Roma, hanno, rispettivamente, 35 e 37 anni. Hanno avuto una figlia nel 2006 e solo dopo la nascita hanno scoperto che soffriva di fibrosi cistica. La fibrosi cistica è una malattia genetica, che causa secrezioni dense e viscide (si chiama anche “mucoviscidosi”), secrezioni che vanno presto a ostruire i dotti principali del corpo. È un male che, alla fine, uccide. Rosetta voleva un altro figlio, ma seguendo un metodo che le assicurasse la nascita di un bambino non affetto da quel terribile male. Lei e Walter sono infatti portatori sani della fibrosi cistica, cioè non ne soffrono ma possono (una volta su quattro) trasmetterla ai discendenti. Ha chiesto quindi di seguire la procedura che si ammette per le coppie non fertili: creazione di embrioni (non più di tre), diagnosi pre-impianto di questi embrioni e fecondazione in vitro con l’embrione sano. La procedura però è riservata esclusivamente alle coppie non fertili e a quelle il cui padre è portatori di un virus trasmissibile (per esempio l’Aids). La richiesta di Rosetta e Walter, perciò, è stata respinta E a questo punto i due hanno fatto ricorso alla Corte di Strasburgo, quella che difende i diritti umani. La sentenza è arrivata ieri.
• La Corte ha dato ragione alla coppia romana.
Sì. I giudici di Strasburgo hanno rilevato una contraddizione nel nostro sistema legislativa: la legge sull’aborto (la 196) ammette che si possa abortire un feto affetto da fibrosi cistica. Ma la legge che regola la fecondazione assistita, la legge 140, impedisce l’analisi degli embrioni, per capire se siano affetti dal male. La Corte ha quindi stabilito che la legge 40 viola il diritto al rispetto della vita privata e familiare di Rosetta Costa e Walter Pavan, cui lo Stato dovrà versare 15mila euro per danni morali e 2.500 per le spese legali.
• È una decisione di natura, per dir così, morale/culturale o la Corte di Strasburgo ha effettivamente il diritto di modificare la legge di uno Stato membro?
Bisogna aspettare tre mesi: se nessuno fa ricorso, la sentenza della Corte fa giurisprudenza. Cioè il Parlamento italiano sarebbe obbligato a correggere o riscrivere il testo della 140. Non ho bisogno di dirle che in altri casi il Parlamento italiano si è dimenticato di correggere leggi dichiarate inammissibili in Europa, esponendosi così a sanzioni. In questo caso siamo di fronte a un formidabile conflitto di ideologie. Mi domando se un governo tecnico ha la forza o il potere di intervenire su una materia simile.
• Che cosa dice il governo?
Per ora ha parlato solo il ministro della Sanità, Renato Balduzzi, già tirato per la giacca dai cronisti ieri per via del maxi-decreto che abbiamo spiegato l’altro giorno (quello che si proponeva, tra l’altro, di tassare le bevande gassate) e che a quanto pare sarà rinviato. Balduzzi, di fronte a quest’altra grana, ha dichiarato: «La questione della compatibilità tra legge 40 e legge 194 è un problema noto. Per il resto aspettiamo di leggere le motivazioni della sentenza». È evidente che il governo sta prendendo tempo. Sarà infatti molto delicata sia la decisione di ricorrere che quella di non ricorrere. Ricorrendo, Monti mostrerebbe che l’attuale governo condivide l’impostazione di fondo della legge 40 che fu approvata dal governo Berlusconi nel 2004 e leggermente corretta da Livia Turco quando divenne ministro della Sanità. D’altra parte anche la decisione di non ricorrere sarebbe tutt’altro che pilatesca: non ricorrendo, fra tre mesi la sentenza di Strasburgo diverrebbe esecutiva. Non ricorrendo, il governo mostrerebbe di inclinare verso l’opinione di coloro che giudicano la 40 un obbrobrio illiberale. Ieri le voci dei due schieramenti sono tornate a farsi sentire.
• Che cosa dicono?
Niente di sorprendente. Sono tutte prese di posizione che rispecchiano le posizioni che ogni forza politica ha sempre avuto su questo tema. Esultanza dei radicali, prudenza di Cicchitto, forte presa di posizione delle associazioni cattoliche che si sono sempre battute per la legge così com’è. I cattolici ribadiscono che oltre al diritto della madre e del padre, c’è anche il diritto dell’embrione, il quale va tutelato dalla legge. Per i cattolici, l’embrione, fin dal primo momento, è un essere umano a tutti gli effetti. Sopprimere un embrione è quindi, secondo loro, un omicidio.
• È una posizione che ha senso?
Se lasciato crescere naturalmente, l’embrione darà vita a un essere umano. Da questo punto di vista il ragionamento dei cattolici non fa una grinza. Dall’altra parte c’è la convinzione che la creatura viva allo stato di embrione non può ancora essere considerato un essere umano. È il retro-pensiero su cui si fonda anche la 194: c’è un periodo iniziale in cui la madre può decidere di abortire e nessuno può impedirglielo. È chiaro che chi ha scritto e votato quella legge pensa che durante il primo periodo (dodici settimane in Italia) la cosa che cresce nel ventre della donna non sia ancora un essere umano. Sopprimerlo dunque, secondo costoro, è possibile. Non mi chieda ora di dire chi, tra i due, ha ragione o ha torto. Si tratta di decidere quando comincia la vita. È una domanda troppo difficile.[Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 29 agosto 2012]