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 2012  agosto 29 Mercoledì calendario

L’ALTRA LOVE STORY


Ci fu persino il dubbio, nel pubblicare
La cugina americana,
romanzo d’esordio di Francesca Segal, che si sarebbe potuto scambiare per un romanzo rosa. Soprattutto perché l’autrice è figlia di Erich Segal, inventore di quel bestseller e blockbuster che fu nel 1970
Love story,
e che ancora oggi, in libro e in film, obbliga a singhiozzare sfrenatamente anche i cinici più efferati. C’era però una curiosa ragione letteraria per farne anche un’edizione italiana: il romanzo della giovane, carinissima Segal è dichiaratamente ispirato all’Età
dell’innocenza
di Edith Wharton. Ma essendo questo già un capolavoro, per di più Premio Pulitzer degli anni ’20, il problema era: perché non limitarsi a rileggere, o leggere, addirittura questo prototipo del passato? In ambedue i libri, comunque, la storia è vecchia come il cucco, e forse per questo in grado di farsi sempre divorare; giovanotto per bene ama e sposa ragazza per bene ma perde la testa per ragazza (apparentemente) per male.
La cugina americana,
titolo originale più whartoniano,
The innocents,
ha invece ben altre ragioni per affascinare. Se la scrittrice americana aveva ambientato i suoi personaggi nella società chiusa, conformista e spietata della New York aristocratica e opulenta del 1870, Francesca Segal sceglie il presente e Hampstead
Garden, la zona della periferia Nordovest di Londra raggiunta dalla linea nera del metro, la Northern Line, quartiere elegante della buona borghesia ebraica, ricca, colta, laica; che come la racconta il romanzo con affettuosa ironia, appare certo convenzionale, forse claustrofobica, ma legata da intensa solidarietà e dal rispetto della propria cultura e identità. Erich Segal, di famiglia polacca emigrata negli Stati Uniti, figlio, nipote e bisnipote di rabbini, cresciuto in una bella casa in un quartiere di Brooklyn, Bedford-Stuyvesant, poi diventato uno spaventoso, ghetto di miseria e pericolo, regno dei rapper più violenti, inventò con
Love Story
l’amore senza lieto fine tra un ricco ragazzo wasp e una povera ragazza di origine italiana. Sua figlia Francesca è ebrea e inglese, vive da sempre nel raffinato, antico quartiere residenziale londinese di Golders Green, abitato da una vasta comunità di correligionari. Il padre, morto due anni fa dopo una lunga malattia, autore di romanzi, musical e cinesceneggiature, era stato professore di letteratura classica alla Yale University; e le ha trasmesso la passione per la lettura e la scrittura.
Il fascino di
La cugina americana,
romanzo toccante, appassionante, ironico, sta nel descrivere un mondo contemporaneo, cosmopolita eppure chiuso dentro i confini, sia pure internazionali, eretti dalla religione, confortato dai suoi riti e dalle sue tradizioni, apparentemente isolato dal resto della città e persino dal tragico passato del suo popolo. Tutto è perfetto in queste vite, il presente è sereno, il futuro sicuro, le famiglie
si conoscono e frequentano, gli amori e i matrimoni non infrangono le regole. Il venerdì, le feste religiose, vissute laicamente, sono occasioni per stare tutti insieme, nelle belle case opulente, rispettando i riti, i cibi, i gesti della tradizione. Per rassicurazione, per conforto, per difesa, per riaffermare sempre la propria identità: come Jacob, «la cui massima aspirazione era stata quella di trasmettere ai figli l’amore per la cultura ebraica». Pur parlando pochissimo di Dio. «Si può aborrire
la religione organizzata eppure considerarsi ebrei. Alla sinagoga c’è posto per chi non crede, per chi crede, per chi è indeciso…». Adam Newman, avvocato non ancora trentenne, ama da sempre, riamato, la bella, soave, rassicurante, appagata Rachel dal seducente seno opulento: è la figlia del suo capo, le due famiglie si vogliono bene, i due giovani hanno già vissuto insieme e ora si sono fidanzati, si sposeranno per la felicità di tutti. E avranno figli da allevare nella laicità ebraica e gireranno il
mondo, ma sempre torneranno nell’abbraccio affettuoso del loro ambiente. Nel giorno di inizio del digiuno, lo Yom Kippur, in sinagoga più che pregare, c’è gran curiosità per la comparsa, tra le signore, di una ragazza troppo alta «con una striscia di pelle scoperta, dalla clavicola all’ombelico, una giacca da sera senza niente sotto… ».
Pare l’inizio del romanzo della Wharton, quando «verso l’anno 1870, Cristina Nilsson cantava nel Faust all’Accademia Musicale di
New York…». Pochi ascoltano la musica, molti con i binocoli osservano in un palco «una giovane donna slanciata» con una acconciatura alla Josephine «che bastava a preannunciare lo stile dell’abbigliamento… fuori dal comune». La bella signora è la contessa Ellen Olenska, ed è la cugina della deliziosa May Welland, la fidanzata di Newland Archer, giovane avvocato di successo: ma la signora è una macchia per la buona società, perché è appena tornata dall’Europa dove ha abbandonato il marito da
cui vuole divorziare. La bella ragazza che attira gli sguardi in sinagoga è Ellie Schneider, cugina di Rachel, appena tornata da New York dove è stata espulsa dall’università per aver partecipato a un film porno. Newland si innamorerà perdutamente, ricambiato, della reproba Ellen, Adam, ricambiato, dell’anticonformista Ellie. Ellie è tornata a vivere con la vecchia nonna Ziva, il solo personaggio del romanzo che ha vissuto l’orrore del campo di concentramento, come Ellie ha subito bambina, l’orrore di un attentato terroristico in Israele che le ha ucciso la madre. Da quelle tragedie i figli dei sopravvissuti e i loro figli, si difendono non evocandole, e fa parte della loro eredità, dice Ellie «questa idea di crearsi un senso di sicurezza e con la routine e una cerchia ristrettissima di amici, dopo che una generazione ha visto
crollare il mondo».
Il romanzo, pubblicato in maggio in Inghilterra, accenna all’antisemitismo con il pestaggio di due ragazzi della Jewish Free School mentre tornavano a casa: «a tavola avevano discusso di altri recenti episodi di violenza scatenati dall’odio, e del prolasso uterino della moglie del rabbino». Nel gennaio del 2009 sul
Guardian,
Francesca Segal riferendosi a gravissimi eventi antiebraici di matrice islamica e all’atteggiamento britannico verso Israele, scriveva, «Io sono completamente, irriducibilmente inglese», ma «se come ebrea non mi sentirò più sicura in metrò, lascerò questo paese, andrò a vivere a New York, anche se non diventerà mai la mia casa». Ma nel romanzo, Adam e Rachel sono al sicuro dentro il vigile, infrangibile cerchio delle famiglie e della comunità; «era così che funzionava. E si erano mossi tutti insieme come una colonia di coralli, per espellere il predatore». Adam, travolto dall’amore che lo avrebbe sottratto alla vita decisa dagli altri, andava difeso da sé stesso. E, via lontano, a New York, se ne sarebbe
andata la predatrice.