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 2012  agosto 29 Mercoledì calendario

ALL’ANGELUS

del 26 agosto, il papa Benedetto XVI è ritornato su Giuda: “ritornato”, avendone trattato nel II volume del suo
Gesù di Nazareth
(Libreria Editrice Vaticana, 2011, pp. 78 ss.), sotto il titolo “Il mistero del traditore”. Ora, sembra che il Papa abbia voluto sciogliere il mistero: «Giuda si sentiva tradito da Gesù, e decise che a sua volta lo avrebbe tradito. Giuda era uno zelota, e voleva un Messia vincente, che guidasse una rivolta contro i Romani. Gesù aveva deluso queste attese». Questa è la spiegazione “fattuale”, a cui si aggiunge il giudizio morale: Giuda non se ne andò quando sarebbe stato il momento di riconoscere che in lui stesso non c’era (più) la fede in Gesù, e la sua colpa più grave fu la falsità. Per questo Gesù aveva detto ai Dodici: «Uno di voi è un diavolo!» (Gv 6,70).
Tra le tante interpretazioni del “caso Giuda” (titolo d’un romanzo di Walter Jens del 1975 che tratta di Giuda come “capro espiatorio” delle prime comunità cristiane), il Papa sceglie
dunque quella politica.
Tradimento per disillusione: Giuda lo zelota (cioè appartenente a una setta irredentista che faceva uso della violenza, nei confronti dei Romani) deve essersi sentito tradito nella sua speranza di riscatto nazionale. Da qui la vendetta. Una variante dell’interpretazione politica è questa, avanzata da Thomas De Quincey nel suo studio su
Giuda Iscariota
del 1853: di fronte a quello che al suo discepolo poteva sembrare un temporeggiare di Gesù (entrato in Gerusalemme come il liberatore, ma che disperdeva il suo tempo predicando nel Tempio), Giuda avrebbe deciso di rompere gli indugi. Mettendolo nelle mani dei sinedriti e dei romani, forse pensava che Gesù sarebbe stato costretto a rompere gli indugi e a passare all’azione.
La motivazione politica è certo meno ignobile di quella venale – la sordida avarizia – che ha una lunga e radicata storia nell’immaginario cristiano. Giacomo Todeschini (
Come Giuda,
Bologna, il Mulino, 2011) ha ricostruito fascinosamente l’uso dell’icona-Giuda, che per trenta denari butta via il suo tesoro (come gli usurati fanno con gli usurai), e della icona contraria della Maddalena, che sembra “sperperare” i suoi beni per onorare il Signore e, in realtà, li investe in qualcosa che vale davvero: uso che ritorna costantemente nei dibattiti trequattrocenteschi sulla povertà francescana e sui doveri di consapevolezza economica di chi opera nella moderna economia basata sul valore di scambio. Già queste due “interpretazioni di Giuda” mostrano quanto ricca di significati possa essere la sua figura. In effetti, il “caso Giuda” resta un enigma insoluto, e ciò permette di interrogarlo sempre di nuovo e trarne alimento per riflessioni tutt’altro che banali, che interessano la teologia, la psicologia, la sociologia, la morale. In generale, intriga tutti coloro che cercano in Giuda le tracce di qualcosa che potrebbe sonnecchiare in ciascuno di noi, come un nostro “doppio”, che non amiamo vedere ma che, tuttavia, c’è. Da qualche parte, qualcuno di certo conserverà ancora un vecchio disco in vinile a 78 giri dal quale
può venire la voce inconfondibile di don Primo Mazzolari che, in una sera piovosa del Giovedì Santo del 1958, predicava di “Giuda, nostro fratello” con parole che vanno molto al di là della cerchia dei credenti in Cristo.
Il volto enigmatico di Giuda, “il traditore”, ha aperto la strada ad arditissimi percorsi intellettuali e teologici. In greco,
paradídomi
(parola usata nei testi evangelici) significa consegnare, trasmettere, tramandare, come in latino
tradere,
senza alcun riferimento morale. Il “tradimento”, nel senso nostro, sarebbe
prodídomi
(usato una volta solo, da Luca, da cui
proditore
proditorio). Su questa parola, il teologo protestante Karl Barth ha costruito la sua interpretazione: Dio “si consegna” all’umanità tramite il Cristo, e la “consegna” è effettuata da Giuda. La lista dei “consegnatori” si allunga poi con Paolo di Tarso. L’oggetto della consegna è la parola di Dio. In questo modo, Giuda compare come l’esecutore di un disegno divino, anzi come una vittima di questo disegno: un disegno che, per tutti, ma non
per lui, è di salvezza. L’essere esecutore, secondo Barth, non assolve Giuda: egli è presentato come «il riprovato da Dio» (anzi, come il rappresentante d’un popolo di “riprovati”, il popolo d’Israele), così come il Cristo è “il riprovato” dagli uomini. Giuda come esecutore colpevole. In generale, noi pensiamo che il colpevole non sia l’esecutore materiale, se questi non dispone della libertà di autodeterminazione, ma sia il mandante: nel nostro caso, Dio addirittura! La teologia cristiana ha qui un problema: Giuda, come tutti i dodici, fu scelto da Gesù, che – dicono le scritture – sapeva fin dall’inizio del suo tradimento. Dunque, lo scelse come collaboratore, anzi – secondo
una versione della corrente gnostica dei Cainiti (registrata nel cosiddetto
Vangelo di Giuda)
– come il più intimo tra i collaboratori: l’unico tra gli apostoli a conoscenza del mistero della salvezza. Il celeberrimo bacio, cui Gesù risponde con la parola “amico”, non sarebbe allora prova di somma doppiezza. Sarebbe invece un segno d’amorevole intesa. In ogni caso, come si può ammettere la condanna senz’appello, riferita dai Vangeli (
Lc
22,22;
Mt
26,24), di uno che, non solo ha partecipato alla realizzazione d’un disegno divino, ma è addirittura stato chiamato a parteciparvi? Eseguire la volontà divina e al tempo stesso essere colpevole d’un misfatto
imperdonabile? Mistero. Si tratta forse della lotta mortale tra il regno di Cristo e il regno di Satana? Riferisce Giovanni (6, 70) queste parole di Gesù: «Non ho forse scelto io voi, i dodici? Eppure uno di voi è il diavolo!». Ma Giuda, seppur posseduto dal demonio, era pur sempre un essere umano e Gesù non è forse venuto per salvare tutta l’umanità? Altro mistero.
La figura di Giuda ha attirato l’attenzione anche per aspetti che vanno al di là della questione della “colpa provvidenziale”. Nel
Doktor Faustus
di Thomas Mann, la vera e somma colpa di Giuda sarebbe consistita nella convinzione di non poter ottenere il perdono, una
desperatio
coincidente con la
praesumptio
d’aver commesso un delitto così grande che neppure Dio l’avrebbe potuto perdonare (da qui il suicidio). Giuda, nel peccato, sarebbe stato più grande di quanto non sia Dio nel perdono. Un atto di sommo orgoglio, dunque. Ma, dice Mann, la disperazione totale è al limite della contrizione totale. Infatti, se si pensa di poter ottenere il perdono, allora forse è perché, in fondo, non si crede d’aver commesso chissà quale delitto e il pentimento, allora, è solo apparente. Ma, se si pensa che il delitto sia imperdonabile, allora sì: la contrizione è perfetta, e la contrizione perfetta porta diritto ad assicurarsi il perdono. Un rovesciamento! Giuda come il più meritevole di assoluzione.
Le interpretazioni paradossali, contrarie al senso comune, non finiscono qui. Questa storia, già a prima vista, è piena di assurdità e aspetti inspiegabili. Allora, via libera alle fantasticherie. Jorge Luis Borges, in
Tre versioni di Giuda,
narra di un teologo svedese, Nils Runeberg, autore d’un raffronto tra
Cristo e Giuda
(1904) dove si riferisce d’una sua “scoperta”. Secondo la profezia, il messia sarebbe apparso al mondo come «l’uomo di dolori, esperto in afflizioni» (
Isaia,
LIII, 2-3), davanti al quale, per la vergogna, ci si copre la faccia. Dio si volle “fare carne”, non come un sovrano trionfante, ma come il più abietto e derelitto tra gli esseri umani. E chi è il più abbietto e derelitto, se non Giuda? Cristo è Giuda, e Giuda è Cristo! Dice Borges che quest’interpretazione non trovò seguaci, ma proprio in questa indifferenza
totale Runeberg vide la conferma ch’egli cercava: Dio ordinava quell’indifferenza per pietà verso le sue creature, non volendo che si propagasse sulla terra un segreto sconvolgente. «Ebbro d’insonnia e di vertiginosa dialettica» il suo cuore non resse e morì d’un aneurisma, il 1° marzo 1912.
Ma al Giuda-Cristo di Runeberg può essere contrapposto il Giuda-uomo di Mazzolari: uno come noi, figura dell’impulso alla ribellione e alla distruzione, perfino delle cose, fino a quel momento, più belle e più care. Soprattutto quando incominciano ad apparire grondanti di simboli, rituali, promesse, esoterismi, segni d’elezione sublimi e oscuri, come nel tempo finale della vita di Cristo. Chi, in presenza di tutto ciò, non ha provato, non prova o non proverebbe un impulso liberatorio, il desiderio di dire: basta così!? Il Papa dice che Giuda fu colpevole perché in lui albergava la falsità. Forse, si può dire il contrario: l’impulso all’autenticità. Uno altro scandaloso rovesciamento.