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 2012  agosto 29 Mercoledì calendario

VI RACCONTO COME NACQUE IN AMERICA IL BOOM DELLE SETTE CHIESE

NEW YORK. È il film più atteso e misterioso di Venezia, e la presenza al Festival è stata confermata solo pochi giorni fa. Ma l’annuncio in extremis non è dovuto solo al perfezionismo dell’autore o alla volontà di creare suspense: Paul Thomas Anderson ha voluto girare The Master in 70 millimetri, esponendo il film a una serie di difficoltà pratiche, come quella di trovare le poche sale rimaste al mondo equipaggiate per la proiezione. A queste difficoltà si sono aggiunte le polemiche relative all’idea di raccontare per la prima volta il mondo di una setta nella quale alcuni hanno voluto riconoscere Scientology.
Anderson nega fermamente di aver avuto problemi, ma la scelta di affrontare quel Mondo ha contribuito ad accrescere l’alone di mistero che avvolge questo film folgorante e gravido di dolore, con il quale Anderson si conferma il talento più coraggioso, originale e sorprendente della sua generazione. Di educazione cattolica (in un’intervista al New York Times ha definito il suo Magnolia, 1999, una confessione, intesa come sacramento), racconta ancora una volta una storia di uomini fragili in cerca di redenzione, con la quale aggiunge un tassello al mosaico che sta realizzando sul proprio Paese. Dopo aver affrontato il rapporto tra il capitalismo e il protestantesimo (Il Petroliere, 2007) e l’industria del cinema pornografico (Boogie Night, 1997), Anderson abbandona l’ambientazione di Los Angeles, alla quale ha dedicato, oltre a Magnolia, Ubriaco d’amore (2002) una storia d’amore segnata da una purezza che sfiorava la follia, all’interno di un mondo che di puro ha ben poco.
The Master (che in Italia sarà distribuito, in 70 millimetri, da Lucky Red) si apre con il rumore del mare, eterno e indifferente alla disperazione che rifulge negli occhi di Freddie Sutton (Joaquin Phoenix), un soldato sconvolto dall’esperienza della Seconda guerra mondiale. È un uomo in pena, che ha bisogno di trovare qualcosa che arrechi sollievo alla propria esistenza che non sia l’alcol. Il suo malessere è lancinante: lo vediamo simulare l’amputazione del proprio braccio mentre taglia una noce di cocco, masturbarsi in riva al mare, e quindi lasciarsi andare a un amplesso estenuato con una donna di sabbia, sotto lo sguardo sconcertato dei commilitoni. Il caso lo fa imbattere in Lancaster Dodd (uno straordinario Philip Seymour Hoffman), capo di un’inquietante setta nella fase iniziale della propria espansione. Come avviene in questi casi, il maestro sottopone il giovane a un interrogatorio nel quale quest’ultimo si mette a nudo, rivelando particolari imbarazzanti e strazianti del proprio passato. E sin da quel primo incontro Freddie ne diventa il braccio destro, arrivando a diventare più realista e violento del maestro.
Ma il rapporto non è di semplice plagio: il legame si basa su un sentimento morboso, ma autentico, al punto che Dodd difende il pupillo contro i figli, che lo vorrebbero allontanare, e dalla moglie (Amy Adams), una Lady Macbeth dal volto dolce e la personalità raggelante. Molte le scene madri, a cominciare da una liberatoria corsa in motocicletta nel deserto, nella quale si esibiscono mentore e pupillo, i primi piani con gli occhi dei protagonisti avvolti nell’ombra, o la discussione tra Dodd e un signore che lo accusa di essere un pericoloso santone. «È la scena che ha colpito maggiormente tutti coloro che lo hanno visto finora» mi racconta il regista nel suo ufficio, dove segue la preparazione della copia che sarà proiettata a Venezia, «e molti tendono a identificare quel personaggio scettico con il sottoscrìtto, ma non è così».
Lei con chi si identifica?
«Con nessuno totalmente, ma ci sono ovviamente elementi personali in ognuno dei personaggi. Non credo che esistano molti film, scritti e diretti da un regista, che non abbiano questa caratteristica».
È vero che suo padre ha avuto esperienze simili?
«Mio padre durante la Seconda guerra mondiale era in marina, ed ha provato i traumi di chi ha conosciuto la guerra. Ma le somiglianze si fermano qui».
Perché ha voluto girare il film in 70 millimetri? L’uso di una pellicola larga il doppio del normale produce immagini più spettacolari, ma poi servono proiettori speciali, che poche sale hanno.
«Durante la preparazione abbiamo testato molte lenti con il direttore della fotografia Mihai Malaimare Jr., finché un giorno l’operatore Gan Sazaki ha suggerito il 70 millimetri, e quando ho visto i risultati me ne sono innamorato».
Ma era consapevole che questa scelta avrebbe generato problemi?
«Credo che ne sia valsa la pena: il 70 millimetri restituisce alla storia una dimensione grandiosa. Ma non credevo che fosse così complicato. All’inizio era stato invitato sia a New York che a Venezia, ma nel primo caso soltanto tanto la sala piccola del festival è equipaggiata con il 70 millimetri. E comunque avevo scelto Venezia dove mi hanno garantito una proiezione adeguata. E dove la copia sarà trasportata a mano per evitare che si danneggi durante il viaggio».
Durante la lavorazione. Thè Master è stato definito dalla stampa come un film su Scientology. Ma nella pellicola non è mai detto esplicitamente.
«Cominciamo con il dire che in America Scientology è considerata una religione e non una setta. E ci tengo a dichiarare che non ho incontrato alcuna difficoltà durante le riprese, anche se la storia è ispirata a Dianetics e, quindi anche per una questione temporale, ispirata indirettamente al momento storico e alle condizioni in cui nasce Scientology. Voglio ribadire che si tratta di una storia inventata: pura fiction».
Cosa l’affascina di quel mondo?
«I meccanismi psicologici e sentimentali che si instaurano tra i protagonisti. Ma avevo in mente da molto tempo di realizzare un film di Freddie Sutton, un’anima persa che torna segnato irreversibilmente dalla guerra».
Coloro che entrano nella setta sono definiti spaventati o avidi.
«Due caratteristiche molto comuni degli esseri umani».
Lancaster Dodd si definisce invece scrittore, filosofo e dottore.
«È lui stesso, in questo caso, che ci tiene ad aggiungere "ma innanzitutto un uomo". E dato che sta parlando con Freddie, dice anche "come tè"».
È carismatico, ma è anche un uomo di spettacolo.
«Nessuno uomo sprovvisto di carisma può fondare una religione o anche una semplice setta. Il fatto che sia un uomo di spettacolo ha a che fare con il suo retroterra americano. Ma non è necessariamente un difetto».
Dodd crede nei propri insegnamenti?
«Io dico di sì, assolutamente. Sono convinto che sia in buona fede»;
Questo genera un atteggiamento empatico, anche quando Io vediamo coprire la violenza del pupillo.
«Credo che i film non si realizzano per esprimere giudizi, ma per raccontare delle storie al meglio delle proprie possibilità».
Nei suoi film la religione compare spesso.
«Non sono osservante, ma il tema mi interessa molto e continuo a tornarci. Anche quando i valori di fondo della fede subiscono degenerazioni».
Si può definire The Master una storia di padre e figli?
«A me sembra soprattutto una storia di due amanti. Non nel senso erotico del termine, ma per l’attrazione irresistibile che i due protagonisti esercitano l’uno sull’altro».
Poteva collocare il film in qualsiasi momento storico, non crede?
«Gli anni Cinquanta sono un grande periodo per ambientare una storia, un momento di speranza e dolore. Guardando alle spalle si scorgeva la distruzione e ciò, da un punto di vista narrativo, genera facilmente il dramma. Aggiungo che, oltre a queste differenti emozioni, in quel periodo e’era anche una bellissima musica».
Ha sempre avuto in mente Philip Seymour HofTman e Joaquin Phoenix per i due protagonisti?
«Sì, il film sarebbe inconcepibile senza di loro. Nel caso di Philip, non parlerei neanche di casting perché la nostra è una collaborazione continua. E sono felice che Joaquin abbia accettato il ruolo. Tra l’altro lo volevo già in BoogieNights e II Petroliere».
Come racconterebbe il film a un produttore che deve finanziarlo?
«Gli direi che è un’occasione per due grandi ruoli».
E agli attori?
«Un’occasione per una storia d’amore».