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 2012  agosto 29 Mercoledì calendario

HA COMPIUTO 101 ANNI L’ULTIMO PRIGIONIERO DEI GULAG DEL COMPAGNO STALIN

SAN PIETROBURGO. La morte è passata tanto tempo fa quando lui abitava all’Inferno. L’ha vista, hanno pure parlato, poi si sono lasciati senza darsi un appuntamento. E lei deve essersi dimenticata. Perché adesso che ha compiuto 101 anni, Pavei Galitskij, ultimo sopravvissuto del Terrore staliniano, non ci pensa neanche. L’unica volta che gli passò per la mente la morte, fu quella notte del 1938 quando il freddo si era fatto insopportabile nel gulag più terrificante dell’arcipelago dei campi di concentramento sovietici. Meno 50 non è temperatura che si possa sopportare facilmente, soprattutto se la tua dose di cibo giornaliero è di appena 300 grammi di pane raffermo. «Non immaginatevi scene da melodramma. Fu tutto molto razionale. Mi strappai la camicia e cominciai a fame delle strisce e poi una specie di corda. Per impiccarmi. Era l’unica soluzione possibile. Già pregustavo una morte amica che si portasse via quella sofferenza». Lo salvò un ragazzo tartaro, una guardia. Sembravano cattive, ma non tutte lo erano. Capì, decise di catalogarlo senza visita medica tra i malati gravi e lo spinse nella capanna dei moribondi, l’unica che avesse una stufa. «Da allora decisi che alla morte non avrei più pensato. Che si occupi lei di me quando ne avrà voglia».
Pavei Galitskij è alto, un po’ curvo, magrissimo. A parlare, non è più tanto veloce. Ma scrivere gli riesce ancora bene. Racconta, scava nelle memoria, rivanga momenti di dolore e di disperazione. Lo fa meccanicamente, senza soffrire, come quando scavava insensate buche nel ghiaccio in mezzo alle bufere di neve: «Meglio concentrarsi sul proprio compito e non tarsi coinvolgere dalle emozioni. Del resto» scherza «a cosa serve un sopravvissuto? A ricordare qualcosa che non dovrebbe più ripetersi. Io lo faccio finché posso. Spero che serva».
Il 30 luglio, poche settimane fa, era la data del tragico anniversario del Terrore. Quel giorno di 75 anni fa il Politburo del Pcus approvava il segretissimo «ordine operativo numero 00447» che formalmente dava il via alla più grande repressione di massa della Storia di Russia contro «gli agenti stranieri e i superstiti delle classi ostili alla rivoluzione», ingomma chiunque fosse lontanamente sospettabile di non aderire anima e corpo al progetto del Partito.
Vittime da dividere in due categorie. La prima da condannare a morte, senza però comunicarlo mai ai diretti interessati che andavano giustiziati, preferibilmente con un colpo alla nuca, quando so ne prospettava l’occasione. La seconda da condannare a un minimo di otto anni di lavori forzati nei gulag siberiani. La zona prescelta fu appunto la valle del fiume Kolyma, nell’Estremo Oriente russo, una delle terre più fredde e inospitali del Pianeta, passata alla storia delle grandi tragedie umane come l’Auschwitz di ghiaccio. Quell’area che Aleksandr Solgenjtsjn definirà «l’ultimo cerchio dell’inferno concentrazionario». La protagonista dei Racconti della Kolyma di Varlam Shalamov, la più struggente narrazione della vita nei gulag.
Solo in questo breve ciclo di orrori staliniani che va dal 1937 al 1939 i condannati furono oltre un milione e mezzo di persone, quasi equamente divisi nelle duo categorie dei giustiziati e dei deportati.
«Io fui arrestato nell’agosto del 1937 » rievoca con un velo nello sguardo, «proprio nei primi giorni di quella follia. Non si sapeva niente, ma cera un’aria strana che faceva prevedere qualcosa di orribile». Tutto avvenne sulle strade sterrate di Zalucjie, villaggio nella regione di Leningrado dove Galitskij faceva il caposervizio nel giornale locale Novit Put. «Avevo chiesto un passaggio a una delle rare automobili in circolazione per accompagnare mia moglie alla stazione. Aspettava il nostro secondo figlio. Ero inquieto. Volevo che tornasse in città per stare più serena. A un tratto ci attraversò la strada un’auto con l’insegna dell’Nkvd, la polizia politica, costringendoci a fermare di colpo. Qualcuno disse: Galitskij, scenda e venga a bordo da noi. Fu l’inizio dell’incubo».
In quegli anni cupi, certi segni erano più efficaci di mille parole. «Capite? Mi avevano chiamato solo con il cognome. A mia moglie che protestava invece dissero: compagna Galitskaja, stia tranquilla, le riporteremo presto suo marito. Capii che almeno lei non era accusata di niente. L’avrei rivista 14 anni dopo».
Solo due giorni dopo, l’interrogatorio. Agente: «Abbiamo prove precise che vi occupavate intensamente di attività controrivoluzionaria contro il Partito e il potere sovietico». Galitskij: «Per quanto ho potuto, ho sempre lavorato onestamente per il bene della mia Patria». Agente: «Abbiamo finito. Portatelo via». Seguì il trasferimento per un mese in una cella con un centinaio di altri detenuti. Dalla cella passò alla camera d’isolamento, costruita in tempi zaristi per una sola persona, ma ora utilizzata per 35 detenuti. «Dormivamo ammucchiati, testa contro piedi. E ci rivoltavamo simultaneamente da un lato all’altro tutti insieme come tragici ballerini».
Poi la condanna comunicata a voce da un secondino. Tutti a chiedersi la stessa cosa: perché io? «Credo che fossi un predestinato al gulag. Mio padre era un sacerdote ortodosso, come mio nonno e il mio bisnonno. Lo capii già nel ’35. Fui espulso dal partito perché ero in stretta relazione con un elemento estraneo. E sapete chi era questo elemento estraneo? Mia madre, moglie di un sacerdote».
Alla Kolyma si lavorava dall’alba al tramonto. Si scavava in miniera e intorno ai campi. Dalla baracca bisognava uscire in fretta. «Veniva una guardia con un bastone enorme. Ci chiamava fuori e l’ultimo ad uscire veniva picchiato selvaggiamente alla testa, giustiziato davanti a tutti. Un morto al giorno». Ma fanno ancora più male i particolari meno cruenti. «Rivedo tutto come un incubo confuso. Ricordo la gioia di quando un camion perse un po’ di polvere di patate da un sacco che si era bucato. La raccolsi in tasca e pensavo di scioglierla presto nella acqua calda e ingozzarmi di pappa di patate. Ma una guardia mi scoprì. Mi fece versare tutto sulla neve e cominciò a calpestarla gridandomi: Sporco fascista». E poi il tradimento. «Dieci anni di gulag stavano per finire. Una mattina mi venne detto che ero stato condannato ad altri dieci anni. Così, con semplicità, come se avessero detti dieci minuti Pare che una notte, commentando le fasi della guerra, mi fosse scappato di dire che l’Armata Rossa era in difficoltà essendo finiti nei gulag o sottoterra i suoi migliori ufficiali. Qualcuno deve avermi denunciato. Ma chi? Cosa gli avranno dato? Qualche pagnotta. O un paio di stivali».
L’incubo fini nel ’53. «Alla morte di Stalin, le guardie piangevano. Capimmo che avevano perso un padrone, che non sapevano più cosa fare, prendemmo coraggio. Cominciammo a ridacchiare e a scambiarci strizzatine d’occhio. Poi, davanti alla reazione afflitta dei nostri carcerieri, cominciammo a cantare e a urlare di gioia. Mi rimandarono a casa poco dopo». E il dopo? Altri 59 anni di vita passati come? «A ricordare. Un po’ per dovere. La memoria è importante. E un po’ perché proprio non mi riesce di dimenticare».