Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Ieri c’è stato l’incontro tra il vertice della Fiat e il governo, incontro richiesto dal premier Monti dopo l’annuncio che la Fiat avrebbe abbandonato il piano “Fabbrica Italia” e i 20 miliardi promessi nel 2010 a Palazzo Chigi (quando c’era Berlusconi). Il faccia a faccia non è stato una formalità, è andato avanti per cinque ore, di qua Marchionne e John Elkann, di là Monti con Passera, la Fornero, Barca e Catricalà. La discussione deve a un certo punto essersi incagliata perché si è continuato con due riunioni separate, gli uomini Fiat in una stanza, il governo in un’altra. Obiettivo: raggiungere un minimo di linea comune, non presentarsi alla stampa divisi. Alla fine infatti è stato emesso un comunicato congiunto. Nella parte che riguarda Fiat si parla di «integrazione delle piattaforme Chrysler e Fiat», si ricorda che negli ultimi tre anni la Fiat ha comunque investito da noi cinque miliardi, si è elogiato il governo per le riforme e «il cambiamento di mentalità idoneo a favorire la crescita» e infine «i vertici Fiat hanno manifestato l’impegno a salvaguardare la presenza industriale del gruppo in Italia, anche grazie alla sicurezza finanziaria che deriva soprattutto dalle attività extraeuropee. In questo prospettiva, Fiat è intenzionata a riorientare il modello di business in Italia in una logica che privilegi l’export, manifestando piena disponibilità a valorizzare le competenze e le professionalità peculiari delle strutture italiane, quali ad esempio l’attività di ricerca e di innovazione. Il governo ha apprezzato eccetera eccetera». L’ultima riga spiega quello che ha intenzione di fare il governo: «Un apposito gruppo di lavoro sarà costituito presso il Mise (Ministero per lo Sviluppo Economico) per individuare gli strumenti per rafforzare ulteriormente le strategie di export del settore automotive».
• Se le dico che mi sto addormentando si offende?
No, i comunicati sono quello che sono, non possiamo farci niente. D’altronde la partita è talmente delicata che era necessario citarne i punti essenziali.
• Ho capito che Fiat non lascia l’Italia.
Si direbbe di no, anche se c’è modo e modo di restare in Italia. Ci sono quattro stabilimenti in bilico, anzi si sa già che per produrre quello che Fiat ha bisogno di produrre quest’anno di stabilimenti aperti ne basterebbe uno solo. Quindi, bene, resteranno in Italia, ma a far che?
• Vogliono esportare… cioè, capisco questo: siccome gli italiani non comprano più macchine e gli europei neanche, bisognerà esportare in America o magari in Cina.
Non ha colto il passaggio sulle piattaforme comuni? È una cosa che Marchionne disse già lo scorso febbraio (intervista a Massimo Mucchetti, da cui l’ad del Lingotto non si è spostato di un millimetro): «Già nel 2014 metà dei nuovi modelli Chrysler e Fiat verranno da una piattaforma comune». Di quali modelli stiamo parlando? Di quelli destinati ai consumatori americani. A fronte di un immobilismo assoluto Fiat, quanto a innovazione, per il mercato italo/europeo, Chrysler ha sventagliato in America 60 modelli diversi. Il concetto, espresso anche nell’intervista dell’altro giorno a Ezio Mauro, è che di là il mercato tira e si guadagna (tre milioni e mezzo di ricavi), di qua non si vende niente e, secondo Marchionne, non si venderà niente fino al 2014.
• Quanto tempo ci vorrà per queste piattaforme comuni e per cominciare a vendere negli Stati Uniti auto fabbricate da noi?
Non posso giurarglielo, ma nell’incontro di ieri Marchionne avrebbe insistito soprattutto sugli ammortizzatori sociali. «Non possiamo continuare a perdere 700 milioni l’anno in Italia». L’idea sarebbe dunque quella che Marchionne ha già fatto capire tante volte: ha bisogno in Italia di altra cassa integrazione, in deroga, e magari di un piano di prepensionamenti. Il tutto per tenere aperte le fabbriche al minimo. Fino a che non arriverà il momento della piattaforma comune con Chrysler e delle esportazioni negli Usa.
• Non potrebbe fabbricare qui la 500L che è andato a fare in Serbia?
In Serbia lavorano per dieci ore al giorno quattro giorni la settimana, con un salario di 300-350 euro al mese. Se uno gli dice di lavorare anche il venerdì, nessuno batte ciglio. Il governo gli ha regalato il terreno, gli impianti e non gli fa pagare tasse per cinque anni. In cambio di questo il Lingotto ha dato lavoro a 1.700 operai. Suppongo che Marchionne, il quale ancora ieri ricordava i benefici fiscali ottenuti dai brasiliani, chieda al governo italiano qualcosa di non troppo diverso. Esempio: far pagare meno la benzina e l’assicurazione sulla macchina. Il governo può però rinunciare a queste entrate? Su questo la discussione deve essersi arenata. Si sa che Marchionne vorrebbe da Monti una mano a livello europeo, perché si decida a Bruxelles, con tanto di ammortizzatori internazionali, la chiusura di stabilimenti europei. Ci sono troppi stabilimenti in Europa, per un mercato che ha smesso di tirare.
• Perché la cosa sarebbe così difficile?
I tedeschi, che invece vendono forte in Cina oltre che sul mercato domestico, non vogliono. Dicono: fate macchine migliori oppure chiudete quello che c’è da chiudere con i soldi vostri. La commissione mista che ha insediato il governo avrà molto da lavorare.
[Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 23 settembre 2012]
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