Goffredo Fofi, Il Sole 24 Ore 23/9/2012, 23 settembre 2012
BENE O MALE SEMPRE FRATELLI
Il Master di Ballantrae, della cui lettura possiamo ora godere nella nuova traduzione di Simone Barillari, è l’ultimo romanzo di Stevenson, se si escludono gli incompiuti Weir di Hermiston, che si annunciava come la più alta e ambiziosa delle sue opere (e quel che ne resta lo dimostra), storia di un figlio odiato dal padre, e il più avventuroso Saint Yves. E in esso è la summa delle sue opere maggiori. C’è l’ambiente scozzese di Rapito e di Catriona e di molti racconti di contrabbandieri e di mare, ci sono le avventure di corsari alla Isola del tesoro e c’è un tesoro anche qui, ma c’è soprattutto il forte richiamo al lungo racconto del Dottor Jekyll e Mister Hyde, scritto e pubblicato nel 1886, appena tre anni prima del Master. Azzardato, anzi spericolato nella complessità della trama, narrata da un fedele servitore di due "nemici fraterni" (come li chiama l’autore invece che fratelli nemici) e inframmezzato da memorie altrui che testimoniano sugli episodi ai quali Mackellar non ha assistito, si snoda lungo due decenni e ha il suo perno nell’odio tra due fratelli il maggiore dei quali chiama il minore Giacobbe perché è convinto di esserne stato derubato della primogenitura e del titolo di Master del loro casato.
In Jekyll e Hyde era un amico e collega di Jekyll a raccontarne "lo strano caso" e in fondo Mackellar non svolge nel Master un ruolo diverso da quello di Utterson, il personaggio del racconto con il quale Italo Calvino diceva di identificarsi o di prediligere, spettatore di buon senso e né buono (ossessionato bensì dalla ricerca scientifica) né totalmente. Ma Jekyll e Hyde erano la stessa persona, nella cui scissione si esprime l’eterno conflitto del Bene col Male all’interno di ogni essere umano, mentre i due nobili fratelli di Ballantrae, James e Henry Durrisdeer sono ben distinti tra loro e hanno ben poco in comune quanto a carattere, l’uno portatore di una risentita malvagità e l’altro di una risentita normalità, e il secondo meno avventuroso, meno affascinante, meno spregiudicato dell’altro. Le complicate questioni in fatto di eredità e di titoli contano molto, perché entrambi finiscono per sentirsi vittime, anche se la legge sta dalla parte del minore, di carattere più mite ma che finirà per agguerrirsi nel lungo corso della vicenda fino a diventare non meno crudele del suo persecutore, che è tornato a strappargli l’amore del padre e della sposa, e fino a ucciderlo. James però non è morto, come Henry e Mackellar credono, salvato dai suoi amici contrabbandieri e tornerà a ossessionare ancora la vita di Henry e a circuire lo stesso Mackellar, con la sua astuzia ma anche con un fascino che gli viene dalla capacità di conoscere gli altri, e perfino di apprezzarne le qualità se non ammantate di ipocrisia. Il male attrae e il bene è smorto, e solo quando Henry diventa anch’egli cattivo, solo allora può diventare un protagonista e non un comprimario, può cessare di essere l’occasione del larvato disprezzo del padre e della moglie – peraltro strappata a James – e dello scherno del fratello maggiore, del suo odio infine irrazionale, che ha basi pretestuose.
Solo allora i due fratelli combattono, si può dire, ad armi pari. Stevenson sapeva bene – lo testimoniano i documenti che quest’edizione aggiunge al romanzo, e in particolare la lettera a Henry James riportata nella "nota del traduttore" – quanto la struttura del suo romanzo fosse originale e coraggiosa, e rappresentasse una sfida che egli faceva a se stesso più che al lettore. «Mi domando se io non mi sia lasciato troppo prendere la mano dalla fantasia», egli dice, e in effetti il lettore non può non avere quest’impressione. Il "cattivo" muore e ricompare due volte (e si parla ogni volta di "resurrezione") e una terza sta per "risorgere" di nuovo, in una scena degna delle più forti del romanzo gotico, grazie al trucco che gli ha insegnato il suo amico-servo (un fachiro che lo segue fedelmente dalle sue avventure in India, di cui nel romanzo si fa solo cenno): «Dico voi che lui sepolto vivo. Io insegnato lui a ingoiare lingua. Ora noi tirare fuori in fretta, e lui non stare troppo male». Però il trucco della morte apparente ottenuta ingoiando la propria lingua (Stevenson non spiega come questo può accadere, né di dove ha preso la notizia di questa possibilità) ha funzionato solo in parte e quando, tirato fuori dalla sua rozza sepoltura, James Durrisdeer sembra riprendersi e boccheggiare, dopo pochi istanti muore davvero, non prima però che suo fratello Henry, vedendolo aprire faticosamente gli occhi, non si accasci al suolo. «Quando lo rialzai», dice il fedele Mackellar, «era un cadavere».
Fino a che punto il romanzesco può sostenere l’improbabile, quasi una sfida alla ragione e al senso comune, e restare nonostante tutto grande letteratura? L’ottocento, assai più del novecento, ha sostenuto questa scommessa egregiamente, Dickens in testa, che è infine uno dei maestri di Stevenson anche se nel Master egli dice di aver pensato per il personaggio di James in parte al modello del Barry Lyndon di Thackeray. Non c’è alcun dubbio che Il Master di Ballantrae sia uno di più grandi romanzi di un secolo che non ne ha avuti certamente pochi, soprattutto nella Gran Bretagna e nelle sue diverse componenti regionali. Ma Stevenson aveva ragione a temere che l’improbabile sembrasse infine stravagante e inammissibile e rendesse il libro di difficile apprezzamento da parte dei lettori più avvertiti. Non è la varietà degli ambienti, che è anzi una delle ragioni di meraviglia del suo romanzo, a sconcertare, e non è neanche lo scivolare di certe situazioni verso l’assurdo, perché il romanzo giustifica tutto se è il suo perno a sostenerlo, e nel Master di Ballantrae questo perno è davvero dei più forti, perfino più forte di quello del Dottor Jekyll. Esso è dato dal presupposto psicologico e morale che è alla base dell’intera storia umana, secondo la Bibbia. Per bocca di James, Stevenson ci rinvia all’episodio biblico di Esaù e Giacobbe e non cita mai, credo coscientemente, il mito primigenio che sta alle spalle di quello, l’inimicizia tra Caino e Abele, la predilezione del Padre per Abele, la gelosia di Caino, l’uccisione di Abele. Lì la tragedia si compie più rapidamente e chiaramente che qui, ma di questa tragedia il Padre, davvero non ha alcuna colpa, davvero non è responsabile? Prima di tornare sul Padre in Weir di Hermiston, è questo, credo, che nell’ambiguità del giudizio sui due fratelli Stevenson intendeva dirci anche in questo romanzo affascinante quanto inquietante.