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 2012  settembre 23 Domenica calendario

Altro che 45% come sostiene il governo nei documenti ufficiali. Quasi si fatica a crederlo: il carico fiscale sulle imprese italiane può sfiorare il 70% della ricchezza prodotta

Altro che 45% come sostiene il governo nei documenti ufficiali. Quasi si fatica a crederlo: il carico fiscale sulle imprese italiane può sfiorare il 70% della ricchezza prodotta. Dare allo Stato ciò che lo Stato ti chiede è doveroso, persino «bellissimo», diceva un compianto ministro dell’Economia. Ma si può costringere schiere di imprenditori in questa onorevole attività dal primo gennaio al 30 di settembre e sperare così di far ripartire l’economia dalla più grave recessione del dopoguerra? In Friuli, dal 1991, che un signore che si aggrappa all’ottimismo della volontà. Si chiama Daniele Strizzolo, possiede tre McDonald’s fra Udine, Martignacco e Tavagnacco. Nel 2011 ha fatturato 7.756.000 euro, ha prodotto utili per 156.172. Nei ristoranti McDonald’s tutto accade sotto il controllo vigile della casa madre, la quale si fa pagare laute provvigioni sul fatturato. I registratori di cassa sono collegati in rete, gli acquisti passano dal centro di distribuzione: evadere il fisco è pressoché impossibile. Quest’anno Strizzolo pagherà 54.480 euro di Ires, 59.674 di Irap, in tutto 111.154 euro. Gli utili - 45.018 euro - verranno completamente reinvestiti per l’apertura di un quarto ristorante. A Strizzolo restano il capitale costruito in vent’anni di lavoro - i locali, le licenze - un’attività che non conosce crisi e il compenso annuo da amministratore unico, 61.600 euro, rigorosamente lordi. «La mia responsabile dei ristoranti ne guadagna 72.000, più auto e telefono», sorride. Si dirà: quello del signor Strizzolo è un caso estremo. Vero: estremo e proprio per questo esemplificativo, tra poco spiegheremo il perché. Le classifiche della Banca Mondiale e della Fondazione Hume confermano che l’incredibile è fra noi. Il «Total Tax Rate» è l’indice della pressione fiscale del “Doing Business”, un’indagine che monitora la libertà d’impresa in 183 Paesi del mondo. Tiene conto di ogni imposta potenziale a carico delle imprese: sulla proprietà, gli utili, il lavoro, i rifiuti, le auto, i dazi, i capitali. Secondo la Banca mondiale in Italia il «Total tax rate» raggiunge il 68,5% del reddito d’impresa. È il livello più alto di tutto l’Ocse. In Italia si paga più che in Brasile (67,1%), Francia (67,1%), Cina (63,5%), in testa alla classifica fino al 2009. Una volta si diceva che la patria per eccellenza delle tasse era la Svezia: l’ultima classifica la confina al nono posto, davanti a Germania (diciottesima) e Spagna (ventiseiesima). Si dirà: in Italia il debito è alto, lo Stato costa, la sanità e le pensioni anche, abbassare le tasse oggi sarebbe imprudente. Chi ci governa lo ripete come un mantra, come a voler ammettere l’incapacità di cambiare passo. Secondo la Banca mondiale c’era un tempo in cui le cose andavano persino peggio di così: sette anni fa il Total Tax Rate italiano valeva il 77,5%, nel 2008 il 73,3%. Guardiamo all’aliquota sui redditi societari, tutto sommato in linea con la media europea: oggi è del 31,4%, inferiore a quella imposta in Francia (33,22%), Belgio (33,99) Giappone (38%) e Stati Uniti, dove raggiunge addirittura il 40%. Quel che in Italia è sproporzionato, altissimo e impossibile, è il carico fiscale sul lavoro, dei dipendenti e degli imprenditori. Nell’ultimo anno, preso dall’emergenza finanziaria, il governo lo ha dimenticato fino al punto di cancellare lo sgravio fiscale garantito da Berlusconi per chi firmava contratti integrativi aziendali. Eppure il problema è in gran parte lì. La iattura di Strizzolo si chiama Irap, imposta regionale sulle attività produttive. Voluta da Vincenzo Visco per riunire altre tasse regionali, funziona secondo uno schema perverso: più dipendenti si hanno, più alta è la quota di mutui accesi (ovvero di investimenti), più si paga. Strizzolo ha ottanta dipendenti, quasi tutti a tempo indeterminato, metà stranieri. «Rumeni, africani, filippini, bosniaci, tailandesi. In un ristorante la responsabile è una ragazza albanese, un’ altra è rumena». Guadagnano circa mille e cento euro netti al mese, più tredicesima e quattordicesima,come prevede il contratto di categoria. «Non vorrei apparirle retorico, ma vedere questi ragazzi mettere su famiglia è una gran soddisfazione». E però «vivo dentro un paradosso», dice l’imprenditore. «Ho amici che lavorano nella meccanica, nell’elettronica, con fatturati pari al mio e un decimo dei dipendenti. Mi chiedo: perché devo essere penalizzato solo perché do lavoro a più persone? Perché il mio capitale non viene remunerato? In un Paese che vuol far crescere l’occupazione non dovrebbe accadere il contrario?»