Giuseppe Scaraffia, Il Sole 24 Ore 23/9/2012, 23 settembre 2012
INSEPARABILI STANLEY ED EMILIO
Una discreta Mercedes grigia o, più di rado, una Porsche bianca erano le auto con cui Emilio – il nome degli autisti è sempre più importante del cognome – andava a prendere gli ospiti di Stanley Kubrick. Strada facendo, li rassicurava con discrezione sul suo padrone. Il regista non era poi così eccentrico, era soprattutto un lavoratore affezionato al suo mestiere e alla famiglia. Quell’autista intelligente, minuto, sempre pronto a prevenire i desideri di Kubrick e a risolvere i suoi problemi, aveva incrociato il percorso del regista in uno strano modo, consegnandogli in taxi l’enorme fallo di porcellana bianca di Arancia meccanica. Non sapeva ancora che quell’imponente signore barbuto, simile a Fidel Castro, era famoso in tutto il mondo. Il risultato?
Queste deliziose, imperdibili memorie, piene di aneddoti e di star.
La storia degli autisti inizia a fine Ottocento. Molto più di un cocchiere, lo chauffeur della Belle Époque era qualcosa di mezzo tra il meccanico e l’ingegnere. Infatti doveva essere in grado di riparare quell’esotico congegno a quattro ruote. Invece della livrea dei servitori vestiva un’uniforme di taglio vagamente militare e se, come in molti casi, il posto di pilotaggio era all’aperto, pesanti indumenti contro il vento. Il cappuccio di Alfred Agostinelli, lo chauffeur amato da Proust, lo faceva sembrare allo scrittore innamorato una «suora della velocità». Ma il vero autista di Proust era Odilon, il marito di Céleste, la celebre cameriera. Durante una scorribanda notturna, lui e Odilon furono scambiati per due membri di un feroce gruppo anarchico, la banda Bonnot. Odilon si vergognava della sua scalcagnata Renault, ma Proust non voleva sostituirla: «No, no, Odilon, non voglio che lei cambi macchina. Mi piace il suo taxi, mi ci sento perfettamente a mio agio e poi ormai ci ho fatto l’abitudine. Non ho bisogno di essere notato quando passo».
Neanche un avventuriero come Lawrence d’Arabia disdegnava gli autisti. Fu proprio su una Rolls infatti che fece il suo ingresso a Damasco. Il condottiero ammirava l’impassibilità con cui gli chauffeur sopportavano i sobbalzi che strappavano di mano il pesante volante, facendo sanguinare le mani. Per difendere il suo chauffeur dagli abusi di un vigile che continuava a multarlo per i motivi più assurdi, un grande sarto, Paul Poiret protestò con il persecutore, concludendo: «È insopportabile farsi rompere i c... da persone che non hanno un c... da fare». Il duello terminò in un tribunale militare con una modesta multa per Poiret. A volte l’identificazione tra l’autista e il padrone diventava pericolosa. Quello di Pirandello aveva cominciato a scrivere anche lui dei drammi e considerava il suo mestiere una perdita di tempo.
Tuttavia al volante era di una lentezza impressionante. Un giorno Pirandello, dopo averlo inutilmente pungolato, gli aveva fatto una scenata. A quel punto lo chauffeur-artista era passato ai cento all’ora, azzittendo il padrone. Ambizioni più concrete avevano spinto un’aspirante attrice, Erin, a improvvisarsi autista della Mercedes di Groucho Marx. Soddisfatta del suo ascendente, dava ordini a tutti e ingozzava il comico di pillole per evitare che si addormentasse sul palcoscenico. Memorabile la scena in cui, estratto il seno sinistro, aveva cominciato ad aggirarsi tra le quinte, annunciando. «È ora di nutrire Groucho!».
Gli autisti erano disponibili per i compiti più strani. Chi entrava nell’aula del Collège de France dove stava per iniziare la lezione di Bergson, poteva vedere molti chauffeur in divisa compostamente seduti. Li avevano mandati le signore dell’alta società per tenere loro il posto.
In Svizzera, Coco Chanel si faceva seguire passo a passo dall’autista in Cadillac nera o in Rolls Royce, mentre passeggiava per ore nel verde. Una ricca amica aveva convinto Cocteau a salire sullo yacht che detestava grazie al suo chauffeur. A ogni porto infatti la Bentley della signora arrivava con una nuova scorta di squisitezze alimentari e di oppio per lui.
Un artista, sosteneva Picasso, non deve essere abbastanza ricco per permettersi una mucca, ma abbastanza per avere un autista. Quanto a lui, dopo avere licenziato il suo, aveva cercato di sostituirlo con il figlio Paulo, che amava le auto e meno il lavoro. Il suo ultimo autista, Maurice Bresnu, è stato recentemente al centro di uno scandalo per avere tentato di vendere una collezione di quadri donatigli a suo dire da Picasso. L’avarizia del pittore era estrema, ma per un autista poteva avere fatto un’eccezione. Infatti la vicinanza quotidiana poteva suscitare sentimenti di fiducia e persino di amicizia. Come nel caso di D’Annunzio che scrisse molte lettere al suo autista. «Durante la stagione invernale è bene che tu tenga il radiatore parzialmente coperto, specialmente se la vettura è soggetta a frequenti arresti ed avviamenti, poiché il motore potrà così rapidamente raggiungere la temperatura di regime, assicurando una completa vaporizzazione della benzina. Come ben sai, il razionale funzionamento di un motore dipende principalmente dall’accensione ininterrotta».
Indifferenti alla fatica o alla noia del guidatore della Buick, una bellissima cortigiana, Liane de Pougy, e due amiche lesbiche: avevano «percorso più di millecinquecento chilometri ridendo, cantando, e amandoci».
Più democratica, la bellissima ereditiera Nancy Mitford si era rapidamente concessa a un autista francese. Ancora più anticonformista il Nobel José Cela, in tempi di solidarietà coatta, girava in Rolls Royce e, alla faccia dell’uguaglianza tra razze e sessi, aveva come autista una donna nera.
Incurante della contradditorietà del suo gesto, nel maggio 1968 la viscontessa di Noailles, a lungo al centro della vita artistica e mondana parigina, ordinava all’autista della Rolls: «All’Odéon!». Lì, mentre lo chauffeur l’attendeva pazientemente, l’anziana signora in tailleur di Chanel, su cui brillavano falce e martello di diamanti, offriva agli studenti in rivolta il prelibato patè di Fauchon.