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 2012  settembre 23 Domenica calendario

IN BARCA NEI TUNNEL DEI BORBONE

Nella galleria più profonda in fondo al tunnel che si infila dentro il Monte Echia, oltre le cisterne vuote delle condotte idriche seicentesche, ai piedi di una scala di ferro sempre umida e scivolosa, la terra sta restituendo l’acqua. Rossastra, ricca di ferro e minerali come quella che una volta sgorgava dalle fonti del Chiatamone e i napoletani conservavano in anforette di terracotta chiamate mummere. Viene su da falde che si immaginavano essiccate, sale lentamente, senza spruzzi né gorgoglii, e senza violare il silenzio di quei luoghi protetti da venti metri di profondità. Ma sale, ed è una piccola rarità, quasi un simbolico segnale di speranza in epoca di siccità crescente e crescenti timori di ritrovarsi un giorno un mondo asciutto incapace di sopravvivere.
L’acqua sale e si infila in una galleria scavata negli anni Ottanta per far passare un treno che non solo non è mai partito, ma non è stato mai nemmeno costruito. Miliardi di lire investiti per far girare tangenti progettando reti ferroviarie impossibili. Ora in questo tunnel dove l’acqua sarà alta circa tre metri, hanno costruito una piccola banchina e c’è attraccata una zattera a remi. Si va avanti lungo il fiume alla luce di due lampade a olio. Dopo cento metri altre fiammelle indicano che il percorso è finito e bisogna tornare indietro. Non si vede niente, e niente si sente. Ma il bello sta proprio lì: si naviga nel nulla sotto terra, quasi un’esperienza mitologica. Ci si può anche emozionare.
E ci si può pure stupire, sorprendere, perfino commuovere, se si risale quella scala di ferro e si raggiungono altri angoli di questo mondo sotterraneo nel pieno centro di Napoli. È il Tunnel Borbonico, un corridoio lungo e dritto che nel 1853 Ferdinando II di Borbone fece scavare — affidando l’incarico all’architetto Errico Alvino — per creare un percorso rapido e protetto che congiungesse la caserma Vittoria (a ridosso del lungomare) con Palazzo Reale. I lavori non furono mai portati a termine e il tunnel rimase cieco dal lato di piazza del Plebiscito. Diventò però una delle vie d’accesso a quel sottosuolo infinitamente ricco di grotte e vie di collegamento che fa di Napoli, città obliqua in superficie, una città verticale nel sottosuolo. Una città con un’altra sotto e poi ancora un’altra e forse un’altra ancora. Luoghi invisibili che nascondono invece tracce visibilissime di storie, di vite, di uomini. Quelle che si incontrano nelle grotte e nelle gallerie, che incrociano il percorso del tunnel di re Ferdinando, raccontano la guerra e i bombardamenti, il contrabbando e i furti, il malgoverno e il malaffare.
Tutto sommerso, fino a pochi anni fa, sotto tonnellate di immondizia e detriti accumulati in decenni di abbandono. Fino a quando due geologi, Gianluca Minin e Enzo de Luzio, e un gruppo di loro amici, si misero in testa di ripulire tutto e rendere quei luoghi visitabili. Sono anche speleologi, Minin e de Luzio, abituati quindi a infilarsi in posti misteriosi e inaccessibili. Stavolta si sono infilati in un’impresa che pareva impossibile. «Ci abbiamo lavorato per dieci anni, abbiamo scavato a mano, e per le cose più pesanti ci siamo industriati con carrucole artigianali», racconta de Luzio, che con il collega ha poi costituito una associazione, di cui l’altro è presidente e lui vice, e ora gestisce le visite guidate nel tunnel.
Che all’inizio sembra un surreale garage sospeso nel tempo. Auto e moto e camion parcheggiati in fila oppure accatastati, perché così li hanno trovati e non hanno potuto tirarli giù. Scocche e telai arrugginiti, gomme schiantate dal tempo. Però i modelli si riconoscono e si riconoscono i colori. È tutta roba sequestrata dal Dopoguerra fino agli anni Sessanta, quando il tunnel fu utilizzato come deposito giudiziario. L’associazione conta su un esperto di auto e moto d’epoca, Paolo Sola, che ha catalogato tutti i mezzi ripescati sotto le macerie e su ognuno ha fatto una indagine, riuscendo spesso a ricostruirne la storia. Ci sono vecchissime Guzzi e Ducati. C’è un triciclo artigianale costruito per trasportare forse alimenti o altro materiale. Una cosa senza omologazione né targa né numero di telaio. Completamente abusiva e illegale. E c’è perfino un enorme camion utilizzato per trasportare sigarette. Gli scafi blu appartengono alla storia del contrabbando e ne sono diventati l’icona. Ma una volta sbarcate a Santa Lucia, le casse bisognava distribuirle ai dettaglianti, e a Napoli erano migliaia quelle specie di piazze di spaccio, quando lo spaccio era solo di tabacchi esteri e non ancora di cocaina e porcherie chimiche. Perciò usavano gli autotreni.
Poi ci sono le automobili. La limousine di un ufficiale inglese che vai a capire come è finita qui dentro. Probabilmente fu rubata e ritrovata quando lui era già ripartito, e non è mai tornato a riprendersela. E ancora una grossa berlina da magliari, e infatti questa a un magliaro apparteneva. Ma c’è pure roba anonima: una vecchissima Fiat 1500, una Topolino, altre carcasse irriconoscibili. Di qualcuna si legge la targa, di qualcun’altra funziona incredibilmente ancora il clacson. Di una è rimasto intatto solo il contachilometri.
È inimmaginabile quante cose siano rimaste intatte qui sotto. Nelle grotte larghe e collegate ai palazzi di via Gennaro Serra e Monte di Dio, che venivano usate come ricoveri durante i bombardamenti, ci sono testimonianze che tolgono il fiato. Borracce per portarsi una riserva d’acqua, materassi sfondati perché capitava anche di restare tanto a lungo da addormentarsi, vasini per far fare la pipì ai bambini. Oggetti che raccontano come ci si organizzava la vita quando le guerre si facevano qui e non in giro per il mondo. Ma oltre alle cose sono le parole a essere sopravvissute. Su un muro c’è scritto a carboncino «Noi vivi», e sotto «26 aprile 1943, allarme delle 13,20». Ci si rintanava senza sapere se se ne sarebbe usciti, e qualche volta la gioia per avercela fatta spingeva a lasciare una testimonianza.
Su un’altra parete di roccia si legge un nome: Waschke Walter, e all’inizio gli speleologi che hanno ripulito le grotte non sapevano proprio spiegarsi come ci fosse finito un tedesco lì sotto. Un tedesco che stava in quegli anni a Napoli, pensavano, doveva essere un militare, quindi sarebbe dovuto stare su a combattere, non giù a nascondersi. Hanno trovato la risposta in un elenco telefonico attuale: Walter Waschke era un bambino napoletano, figlio di un militare tedesco della Prima guerra mondiale che si era innamorato di una donna napoletana e di Napoli e aveva scelto di viverci. Quando Sola, l’esperto di auto, ha telefonato al numero intestato all’ingegner Waschke per chiedergli se fosse mai stato in un rifugio durante la guerra, era emozionatissimo, ma niente in confronto a quello che ha provato l’ottantenne Walter tornando nella grotta e riconoscendo il graffito della sua firma. E ricordando che allora, per lui e i suoi coetanei, quello era un posto magico dove organizzavano spedizioni alla scoperta di sempre nuovi cunicoli.
E chissà se saranno arrivati pure al tunnel più profondo, quello che all’epoca era soltanto uno dei tanti condotti dell’antico acquedotto e che come gli altri aveva sulle pareti i buchi usati dai pozzari per arrampicarsi e regolare i flussi. Scendendoci ora, e vedendo il piccolo fiume venuto su da solo, è impossibile non pensare a quegli amministratori e a quei tecnici che proprio qui decisero di farci passare un treno. L’avevano chiamata Linea tranviaria rapida e l’avevano presentata come una rivoluzione in tema di trasporti. Se il fallimento di una classe politica e le inchieste della magistratura non avessero fermato il progetto, Napoli avrebbe un altro poco gradevole ricordo: il primo affondamento di un treno.
Fulvio Bufi