Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  settembre 23 Domenica calendario

TUTTE LE CARTE PER AIUTARE L’AUTO

Cinque distinti modelli di sostegno alla domanda e all’offerta. Il vetero-continentale. L’est europeo. L’americano. Quello dei Paesi in via di sviluppo. E quello asiatico. Ognuno calibrato secondo la storia, le emergenze e il grado di industrializzazione della propria area. Tutti con una cosa in comune. L’automotive è quanto di più distante esista dalla concorrenza perfetta. C’entra molto poco con gli schemi interpretativi dei teorici del libero mercato.
È una realtà durissima. Ultra-competitiva. Ancora centrale nell’economia mondiale, anche se il secolo dell’auto (il Novecento) è finito: per l’Acea, nella sola Unione europea a 27, impegna il 7% degli addetti della manifattura (con un effetto leva nell’indotto di un posto di lavoro diretto che ne genera quattro indiretti) e, per la società di ricerche Frost & Sullivan, vale fra il 3 e il 4% del Pil americano e il 6% del Pil europeo. La geografia economica dell’auto, per usare una espressione che metterebbe d’accordo sia i sostenitori del mainstream alla Paul Krugman sia gli assertori della necessità della politica industriale alla Dani Rodrick, ha una mappa precisa.
Il modello vetero-continentale è quello, appunto, specificatamente europeo. Dove una struttura di mercato ultraregolata e protezionistica, in cui in tutti i Paesi fino agli anni Novanta esisteva un mix di misure in grado di sostenere a 360 gradi il settore, ha dovuto fare i conti da un lato con la riduzione della dimensione della mano pubblica e, dall’altro, con gli orientamenti comunitari pro-concorrenza. Il risultato è che, negli ultimi quindici anni, le politiche italiane, francesi, tedesche e spagnole hanno avuto un prevalente filo rosso: incentivi, ancora incentivi, e sempre incentivi. Osserviamo la proiezione storica elaborata sul nostro Paese dall’ufficio studi dell’Unrae. Nel 1996 le immatricolazioni di auto erano state pari a 1,7 milioni. Nel 1997, con la prima massiccia campagna di incentivi orchestrata dal Governo Prodi (Bersani ministro delle Attività produttive), sono salite a 2,4 milioni. La seconda campagna è stata nel 2001 (di nuovo 2,4 milioni, Governo Berlusconi e ministro Marzano). La terza nel 2008 (2,1 milioni, Governo Berlusconi e ministro Scajola). La prima ha rivitalizzato la domanda. Le altre due l’hanno soltanto sostenuta, evitandone il tonfo. Il 22 dicembre 2009, in un incontro a Palazzo Chigi con i sindacati, Marchionne spiegava come gli ecoincentivi avessero un effetto di 600 milioni sui conti Fiat dell’anno. Dunque, in Europa l’auto rappresenta un bene strutturalmente sussidiato. In Germania, nel 2009 quasi due milioni di acquirenti hanno esaurito rapidamente il budget da 5 miliardi di euro. Con un effetto paradossale, dato che si trattava di un sostegno alla domanda e non all’industria nazionale: a Berlino o a Francoforte la Fiat 500 costava 4.990 euro e la Grande Punto 6.450 euro.
Al modello vetero-europeo si affianca quello neo-europeo, relativo ai Paesi dell’est da poco entrati nell’Unione europea. In questo caso, esiste un sostegno all’industrializzazione che passa attraverso contributi diretti di Bruxelles (sussidi leciti, per aree depresse) e sgravi fiscali di durata variabile. Un caso esemplare è quello della Hyundai che, nel 2007, ha investito a Nosovice, in Repubblica Ceca, 200 milioni di euro, poi saliti al doppio. Il 10% della cifra iniziale è stata coperta a fondo perduto dall’Unione europea. E, dato che Bruxelles garantisce soldi a un solo stabilimento per Paese, il gruppo coreano ha pensato bene di aprirne un altro in Slovacchia, a Zilina, 50 chilometri da Nosovice, con il marchio Kia. Il risultato è una fabbrica doppia e integrata, che ha beneficiato due volte dei fondi comunitari per l’industrializzazione e dei vantaggi fiscali (per esempio Nosovice solo ora, dopo tre anni di sgravi, ha un regime fiscale non sovvenzionato).
Il rito americano dell’intervento di Stato, invece, è cosa ancora diversa. In un Paese abituato a fare precipitare risorse pubbliche nei settori ad alta tecnologia attraverso gli investimenti militari, per una volta il dirigismo ha preso la direzione dell’equity dell’industria dell’auto. Detroit - in particolare Gm, il suo spinoff finanziario Ally Financial e Chrysler - è stata salvata dalla Casa Bianca (prima repubblicana e poi democratica) con un piano da 85 miliardi di dollari. Il Tesoro ha acquisito per 50 miliardi il 61% della General Motors (ora è al 26,5%, andrebbe in pari se le azioni, quotate 24,8 dollari, salissero a 53 dollari) e, in cambio di 12,5 miliardi, l’8% di Chrysler. Secondo le ultime stime del Tesoro, la perdita complessiva attuale è di 25 miliardi di dollari. Washington ha per una volta sostenuto la domanda dei consumatori con il programma "cash for clunkers", soldi in cambio di catorci: tre miliardi di dollari di incentivi prosciugati, fra il luglio e l’agosto del 2009, da americani che hanno acquistato 690.114 automobili.
Nelle mappe delle politiche industriali dell’auto, ci sono poi le grandi economie emergenti. Come il Brasile, dove Marchionne ha ricordato che, per lo stabilimento in via di costruzione nello Stato di Pernambuco, riceverà finanziamenti sino all’85% di un investimento da 2,3 miliardi di euro, più benefici fiscali per 5 anni. Dunque, politiche dal lato dall’offerta. Ma, almeno in quei vecchi Paesi in via di sviluppo ormai nobilitati con l’acronimo di Brics, esistono anche le politiche dal lato della domanda. Di nuovo, incentivi. Diretti e indiretti, sotto forma di crediti di imposta. In Brasile, spesso modulati da Stato a Stato. E pazienza se, come spesso capita, al ciclo positivo innescato da essi segua, l’anno dopo, un calo almeno proporzionale.
Differente ancora il modello asiatico. La Cina. Dove, a parte i motori ultra-ecologici, i sostegni alla domanda non sono adoperati, dato che la domanda di certo non deve essere irrobustita per via artificiale: nel 2011, nella Pechino ostaggio del traffico, sono state perfino bloccate le immatricolazioni. La politica industriale del Partito comunista cinese punta sulle condizioni di contesto. A Tiexi, vicino al confine con la Mongolia, la Bmw ha appena inaugurato il suo terzo impianto, 500 milioni di euro investiti dalla sua joint-venture con il produttore locale Brilliance. Il tutto, in uno scenario lunare. A seicento chilometri da Pechino. In poco tempo, la provincia di Shenyang ha creato l’intera infrastrutturazione materiale e immateriale, dalle strade ai servizi, fino alle tecnologie.
Dunque, i mercati sono globali. La concorrenza è durissima. E le politiche industriali nazionali non sono neutre. Anzi, saranno sempre più decisive.