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 2012  settembre 23 Domenica calendario

PARIGI

«Non c’è grande differenza tra la realtà inventata del cinema e quella delle nostre vite. È sempre frutto della nostra immaginazione. Le scelte esistenziali sono soggetti di studio proprio attraenti, no?» Sorride Shirley MacLaine. Sorriso d’altra epoca — cinematografica — più lieve e pungente, venata di rassegnate malizie. Compressa in un’incredibile giacchina di lustrini, la diva Usa, 78 anni tutti frizzanti, sorella maggiore di Warren Beatty («molto maggiore», ammicca, forse con unico richiamo ai tre anni di differenza), assesta i suoi colpetti di humour a ogni argomento o persona che sfiora, inclusa se stessa. Sul cinema francese, da lei lambito più volte in decenni di set, si limita a osservare che «quelli che ho amato sono morti. O in pensione. O hanno cinque o sei bimbi da accudire».
Dietro la risata traspare in filigrana la sua celebre battuta in
Can-Can,
il musical del ’60 con Frank Sinatra e Maurice Chevalier: «Il peccato non è stato inventato a Montmartre: vi è stato solo perfezionato». Dei sei-sette film ora in agenda (più fitta di quella di Kristen Stewart e delle tante neo-divette
del momento) alcuni, come
Mother Goose!
(in cui sarà la Mamma Oca della fiaba), faranno tappa probabile in Francia, dove l’anno scorso la
Cinémathèque Française de Paris e il Festival du Cinéma Américain di Deauville l’hanno onorata con trofei come la Legion d’onore e retrospettive: quasi un “Improvvisamente, Hollywood scorsa”, tra i lampi riconoscenti dell’incantevole fessura asiatica dei suoi occhi, lei con accanto Leslie Caron, l’amica coetanea venuta a festeggiarla. Due corpicini rimpiccioliti dal tempo, tenero quadretto virato in seppia dell’America remota del musical e della
sophisticated comedy:
figlie del cinema, storia del cinema.
Peperina, iperattiva, un libro in uscita e due film scodellati da poco,
Valentine’s Day
di Garry Marshall con Julia Roberts e
Bernie
di Richard Linklater con Jack Black, la MacLaine vanta oltre settanta titoli dal 1955 a oggi, di cui subito dodici nelle prime stagioni, dai ventuno ai ventisei anni, quando più che mai il magico sguardo liquido del suo viso infantile dava ragione al
refrain
dell’«unica attrice capace di sorridere attraverso le lacrime». Un po’ la Gelsomina di Hollywood: naturale che finisse in
Sweet Charity,
ispirato alle
Notti di Cabiria.
Ha conosciuto Giulietta Masina? «Ci siamo incontrate a Roma, duemila anni fa — ironizza l’attrice — Forse era il 1968, prima delle riprese. I guai sono venuti dopo, con Bob Fosse, dietro la cinepresa, che ci teneva in piedi fino all’alba: ci faceva provare e riprovare, voleva vederci madidi di sudore. E pensare che sono stata io a chiedere che dirigesse il film, contro il parere di tutti, refrattari a un “semplice coreografo”. Se è diventato regista, lo deve a me».
Lei ha preso il volo nel cinema grazie a Hitchcock. Che ricordo ha del suo esordio nel 1955 con
La congiura degli innocenti?
«Era una commedia nera, che non è andata bene negli Usa. Ha invece funzionato in Europa, dove quel cadavere continuamente sotterrato e dissotterrato, poi finito nell’armadio, poteva avere per voi un che di familiare, addirittura un significato politico...». Hitchcock l’ha corteggiata? «Era fiero che consumassi i pasti con lui. Non ho mai mangiato tanto in vita mia. Durante le riprese sono ingrassata di quindici chili: la Paramount mi metteva in guardia (“attenta a non comprometterti la carriera”) e io creavo problemi al montaggio, perché da una sequenza all’altra potevo aver preso otto chili. Ma a Hitchcock non importava: l’essenziale era che mangiassi in sua compagnia. Mi aveva scoperta in teatro, dov’era venuto
a vedermi. L’unica sua indicazione era stata: non m’interessa come reciti, nel cinema sono importanti solo la sceneggiatura e la prima proiezione pubblica. Ecco qual era la sua considerazione degli attori: zero».
Lo stesso anno, in
Artisti e modelle
di Frank Tashlin, ha creato un triangolo tutto fiamme con Jerry Lewis e Dean Martin. «Ma di sesso non c’è mai stata l’ombra: avevo ventun anni e mi consideravano la loro mascotte. Jerry Lewis aveva poi tenaci resistenze verso il body giallo, che indosso quando canto
Innamorata
nel comico balletto dove tento di sedurlo. L’ostilità al mio costume l’ho sempre spiegata col fatto che io ho belle gambe e lui no. So che in Italia adorate Jerry Lewis, ma a volte anche lui è insopportabile ». Due film trionfali con il grande Billy Wilder,
L’appartamento
e
Irma la dolce:
una festa? «Non solo sul set.
Irma la dolce
è stata per me anche un’importante esperienza di vita. A Parigi,
per entrare meglio nel personaggio, sono andata alle Halles a incontrare le prostitute. Ho potuto trarne una significativa radiografia del genere maschile che circola loro intorno. E ho seguito il loro lavoro da vicino: ero diventata amica di una donna, poverissima, che si prostituiva per tirar su i figli».
Con Jack Lemmon, che in
L’appartamento
le prepara gli spaghetti scolandoli nella racchetta da tennis, ha creato una coppia indimenticabile. Un sodalizio anche privato? «Era uno zuccherino, ma non me ne sono mai innamorata. Non posso nemmeno dire che fossimo amici, ma mi ricordo che quando aveva problemi con la figlia era lieto di avermi vicina. Lemmon è stato per me come una zia. Era di un perfezionismo esasperante, provava un’infinità di volte, adorava moltiplicare i ciak. Quando non ero impegnata sul set, l’osservavo da dietro le quinte. Ho così imparato che troppe riprese non sempre fanno bene a un attore. Lemmon era geniale fino al decimo ciak, ma poi esagerava, era un crescendo di gigioneria dall’undicesima ripresa in poi. Mi chiedevo come mai un regista, persino Wilder, non riuscisse a capire quando smettere».
Nei film più recenti lei sta facendo dimenticare il faccino incantevole degli inizi, assumendo con qualche voluttà la maschera di megera: si diverte? «Certo! Adoro interpretare vecchie irascibili, perché nella vita sono sempre troppo saggia. Sia in
Fiori d’acciaio
di Herbert Ross che, adesso, in
Bernie,
sono un’altra me stessa: quella che sto diventando, forse. E dal febbraio scorso, nella miniserie tv
Downton Abbey,
alla sua terza stagione, sono una suocera terribile, a tu per tu con un altro incubo domestico, la consuocera, interpretata dall’insuperabile Maggie Smith». Il suo successo sempreverde (l’Oscar nel 1983 per
Voglia di tenerezza
e altre sei nomination) è il risultato di preparazioni meticolose? «Leggo la sceneggiatura una volta e stop. Lascio che il regista mi spieghi: non voglio rubargli il mestiere. In realtà, nel cinema sono rimasta quel che ero da piccola: una danzatrice. Ho cominciato a due anni e mezzo: avevo le caviglie deboli e mia madre era sicura che mi avrebbe giovato. Ero incantata dalla disciplina, dalla musica, dal senso di equilibrio. Adesso, quando imparo un testo, l’associo a un movimento del corpo. Il personaggio che interpreto, so subito come cammina, gesticola, si atteggia. Ho trapiantato nel cinema
la tecnica del balletto. Tutti i miei movimenti sono condizionati da quelli degli altri. Molto democratica, come attrice, vero?».
Perché la sua vita artistica non è continuata sulle punte? «Per la danza classica ero troppo alta: non c’era partner che potesse sollevarmi e sostenermi. A scuola mi facevano sempre interpretare i ruoli maschili. Inoltre, ci mettevo troppa passione. Passata la passione non mi è rimasta che la recitazione. Ma, in termini di moralità e di equilibrio, anche interiore, la formazione di ballerina è stata fondamentale: una disciplina della pace, che nel tempo ha continuato ad aiutarmi, a salvarmi. Non fossi stata danzatrice, non avrei fatto nulla: non ci sarebbero stati il cinena, un matrimonio — dal ’54 all’82 — e una figlia, Sachi Parker, avuta a ventiquattro anni. Non ci sarebbe stata Hollywood».
Come è la sua Hollywood, mezzo secolo dopo? «Irriconoscibile. La produzione dei grandi Studios non è che marketing: più nessuno si assume rischi, che erano il sale del cinema quando ero giovane. Oggi tutti vanno sul sicuro, cioè sulla replica all’infinito di formule di cassetta: e via con i sequel e i sequel dei sequel. L’unica ricerca è nelle alchimie tecnologiche, dove l’affanno è di ottenere effetti sempre più sofisticati, ghiribizzi ogni volta più sorprendenti. Ormai il cinema è solo tecnica. Devo dirlo: sono stufa di entrare in sala e vedermi sbattere in faccia l’ultimo ritrovato in 3D».