Francesco Grignetti, la Stampa 23/9/2012, 23 settembre 2012
LA LENTA RITIRATA DEGLI ITALIANI “I SOLDATI DI KARZAI CONTRO I TALEBAN”
Il ritiro dei nostri militari qui è già cominciato, anche se in Italia ancora non s’è capito. Sono alcuni mesi infatti che gli italiani non presidiano più alcune basi. Le più piccole, le più lontane dal centro di gravità del contingente, le più scomode, durante l’estate sono passate sotto il controllo delle forze afghane. Accade nel Gulistan, ad esempio, un distretto rognoso di confine dove simpatizzano con i taleban e che negli anni ci è costato caro. Ebbene, quel che sta succedendo in quelle valli può essere considerato emblematico di quel che sarà dell’intero Afghanistan dei prossimi mesi: si combatte quasi ogni giorno, gli «insurgents» stanno moltiplicando attacchi e attentati, ma per il momento l’esercito di Karzai risponde colpo su colpo. Da quelle parti non c’è più nessun soldato occidentale. Persino gli elicotteri sono guidati da piloti afghani. Il Gulistan, insomma, con tutti i limiti di una situazione estremamente precaria, sta tenendo. Poteva essere un disastro, come accadde quanto se ne andarono i sovietici. E invece no. «Abbiamo capito che gli “insurgents” hanno modificato le loro tattiche. Ora attaccano soprattutto le forze afghane per demoralizzarli, ma non ci stanno riuscendo», spiega il generale Marco Bertolini, comandante del Centro operativo interforze, responsabile tecnico di tutte le missioni all’estero.
Viste dall’alto, dagli oblò degli elicotteri, queste basi dai nomi impronunciabili - Bakwa, Shindand, Bala Baluk - sono fortini di sabbia nel nulla. I soldati vivono protetti da alte mura di terra battuta e quando escono dal cancello sono in piena tenuta di guerra. «Gli attacchi sono all’ordine del giorno, ma le capacità degli afghani crescono a vista d’occhio», riconosce il generale Dario Ranieri, che comanda la brigata alpina Taurinense, da 10 giorni responsabile della Regione Ovest. Ieri era in visita per questi avamposti il ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola. «Mi ha molto colpito - dice - la capacità dei nostri soldati di cambiare natura della loro missione. Si è passati dal combattimento all’istruzione. Non era facile. Un conto è muoversi con il proprio team, di cui si conosce la preparazione. Altro è trovarsi in un territorio così infido con a fianco un soldato che parla un’altra lingua e di cui si sa che non è ancora perfettamente formato. Ci vuole coraggio. E i nostri lo stanno dimostrando».
A girare da queste parti, sotto il sole rovente che cuoce le tende di Shindand, oppure tra i container di Bakwa, si capisce però che la Nato (e quindi l’Italia) ha completamente cambiato rotta nell’ultimo anno. Fino a qualche tempo fa, comunque si volesse dire, noi eravamo qui a combattere. Ma il famoso «surge» è stato un fallimento: per ogni taleban ucciso, altri due ne hanno preso il posto. La battaglia si è così trasferita su tutt’altro piano. Per vincere bisogna convincere gli afghani che il loro esercito e la loro polizia stanno diventando una cosa seria e che possono fidarsi dello Stato più che dei clan o delle milizie di passaggio.
Per arrivare a questo risultato, ogni energia è profusa per istruire e supportare i locali. A Shindand, per dire, c’è un pilota della nostra aeronautica, Alfonso Cipriano, che ha imparato a guidare i mastodontici elicotteri di fabbricazione russa MI-17 per insegnare a sua volta ai giovani cadetti afghani. In due anni hanno preso il brevetto di pilota o di tecnico in 84: sono il primo nucleo della loro aviazione.
A Bakwa istruiscono reclute dell’esercito e della polizia. «Dimostrano un coraggio notevole - racconta il colonnello dei carabinieri che li addestra - e sfidano la morte ogni giorno su mezzi che non hanno le nostre corazzature, senza supporto aereo, con turni massacranti».
A Herat, gestita dal contingente, c’è un’emittente - «Radio Bayan» che trasmette mattina e sera esclusivamente nelle lingue locali: musica, poesie, notiziari, programmi di intrattenimento. I due ufficiali che sovrintendono alle trasmissioni, Angelo Cipriani e Alessandro Faraò, hanno alle loro dipendenze una redazione di giovani entusiasti che raccontano i fatti del giorno, e non mancano di magnificare le gesta delle loro forze di sicurezza. «E’ la nostra linea editoriale - spiegano - . Non nascondiamo di essere la voce del contingente. Facciamo conoscere alla gente chi siamo e quel che facciamo. Ma l’obiettivo principale in questa fase è supportare la transizione».
Conclude il ministro Di Paola: «La transizione è cominciata; la decisione è presa da tempo. Nessuno vuole restare altri dieci anni in Afghanistan, ma non possiamo nemmeno girare le spalle e andare via di botto».