
Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Il ministro della Difesa Ignazio La Russa riferirà oggi pomeriggio alla Camera in merito alla morte del primo caporal maggiore Alessandro Di Lisio, nato a Campobasso nel 1984 e morto ieri in Afghanistan a 50 km dalla città di Farah.
• E’ un effetto – tragico – dell’offensiva americana?
Solo indirettamente. La città di Farah non è nell’Helmand, dove è in corso l’attacco Usa, ma in una provincia confinante, la provincia di Farah. All’8˚ Reggimento genio guastatori-paracadutisti della Folgore, i militari afghani avevano chiesto di «fornire sicurezza», cioè di proteggere gli uomini impegnati nella ricostruzione di una caserma. Il «fornire sicurezza» non riguarda solo le operazioni di polizia classiche, ma anche gli interventi relativi a ordigni, mine e quant’altro. Di Lisio, un ragazzo di 25 anni di Campobasso, era un esperto di queste pratiche pericolose. Non è morto però per un’imprudenza: lungo la strada che lo riportava a Farah, una bomba talebana è esplosa al passaggio del convoglio formato da due blindati Lince e da un blindato Coguar. L’esplosione ha colpito il veicolo di testa, uccidendo Di Lisio e ferendo tre compagni, ma non gravemente. Cioè, non sono in pericolo di vita.
• Quindi non si è trattato di un combattimento nel quadro dell’offensiva Usa in corso da una decina di giorni per costringere i talebani alla ritirata.
Come le dicevo prima, indirettamente. La Russa, ieri, ha detto che questi ordigni che i talebani fanno esplodere e che vengono chiamati Improvised Exploded Devices sono più potenti di prima. Anzi, siccome qualche tentativo precedente era stato vanificato dalla robustezza dei Lince, pare che coloro che hanno messo insieme queste bombe si siano prefissi di dotarle di una forza sufficiente a vincere la resistenza dei blindati. Proprio 10 giorni fa, a 20 km da Farah, era stato fatto esplodere un ordigno destinato a colpire un nostro Lince, ma con un effetto scarso: erano stati feriti leggermente tre soldati. Questa ostinazione a colpirci non può che essere la conseguenza dell’attacco americano su vasta scala.
• Ma perché gli americani si sono concentrati proprio su quella provincia?
Ne abbiamo già parlato l’ultima volta che abbiamo discusso dell’Afghanistan. L’Helmand è una terra ricca di grano e di oppio. La metà di tutto l’oppio afgano, che alimenta il 90% del mercato mondiale, è prodotta qui. Con i soldi dell’oppio, i talebani finanziano la propria attività e, se serve, quella dei loro alleati al-qaedisti . L’Helmand è vicino alle 7 province pakistane famose per il fondamentalismo. Ricorderà che l’esercito pakistano è riuscito una ventina di giorni fa a cacciare i talebani da Islamabad, da dove avevano instaurato una specie di governo della sharia. Nell’Helmand è lo stesso. I talebani ne hanno fatto una specie di dominio personale, da cui traggono forza. La strategia di estrometterli sembrerebbe sensata, tanto più che in agosto ci sono le elezioni presidenziali ed è importante che si svolgano senza intoppi. Ieri Obama, ricevendo alla Casa Bianca il premier olandese, ha parlato proprio dell’Afghanistan, dato che anche gli olandesi sono impegnati in quel conflitto (ma con la Nato, come noi): «Tutti noi cerchiamo una strategia d’uscita efficace dove sempre più l’esercito, la polizia, i tribunali e il governo dell’Afghanistan stanno assumendo responsabilità sempre maggiori per la tutela della loro difesa». Il suo obiettivo dichiarato è di restituire l’Afghanistan agli afgani. Qualcosa di molto difficile da realizzare.
• Non sarebbe ora che ce ne andassimo anche noi? Quanti dei nostri sono morti laggiù?
Quattordici militari in cinque anni. Però non tutti in combattimento. Uno di morte naturale, qualche altro per incidente. In ogni caso, c’è un impegno internazionale condiviso anche dall’opposizione: non siamo lì a combattere, ma ad operare per la ricostruzione.
• Da quanto tempo Di Lisio stava laggiù?
Da quattro mesi. E, se ho letto bene una sua frase su Facebook, doveva rimanerci per altri tre. Su Facebook, dove adesso c’è un gruppo in suo nome che ha subito registrato un centinaio di iscritti, aveva anche annotato: «La guerra è uno sporco lavoro, ma qualcuno dovrà pur farla». [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 15/7/2009]
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