Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  luglio 15 Mercoledì calendario

Il ministro della Difesa Ignazio La Russa riferirà oggi pomerig­gio alla Camera in merito alla morte del primo caporal maggio­re Alessandro Di Lisio, nato a Campobasso nel 1984 e morto ie­ri in Afghanistan a 50 km dalla città di Farah

Il ministro della Difesa Ignazio La Russa riferirà oggi pomerig­gio alla Camera in merito alla morte del primo caporal maggio­re Alessandro Di Lisio, nato a Campobasso nel 1984 e morto ie­ri in Afghanistan a 50 km dalla città di Farah.

E’ un effetto – tragico – dell’of­fensiva americana?
Solo indirettamente. La città di Farah non è nell’Helmand, do­ve è in corso l’attacco Usa, ma in una provincia confinante, la provincia di Farah. All’8˚ Reggi­mento genio guastatori-paraca­dutisti della Folgore, i militari afghani avevano chiesto di «for­nire sicurezza», cioè di proteg­gere gli uomini impegnati nella ricostruzione di una caserma. Il «fornire sicurezza» non riguar­da solo le operazioni di polizia classiche, ma anche gli inter­venti relativi a ordigni, mine e quant’altro. Di Lisio, un ragaz­zo di 25 anni di Campobasso, era un esperto di queste prati­che pericolose. Non è morto pe­rò per un’imprudenza: lungo la strada che lo riportava a Farah, una bomba talebana è esplosa al passaggio del convoglio for­mato da due blindati Lince e da un blindato Coguar. L’esplosio­ne ha colpito il veicolo di testa, uccidendo Di Lisio e ferendo tre compagni, ma non grave­mente. Cioè, non sono in perico­lo di vita.

Quindi non si è trattato di un combattimento nel quadro del­l’offensiva Usa in corso da una decina di giorni per costringere i talebani alla ritirata.
Come le dicevo prima, indiret­tamente. La Russa, ieri, ha det­to che questi ordigni che i tale­bani fanno esplodere e che ven­gono chiamati Improvised Exploded Devices sono più po­tenti di prima. Anzi, siccome qualche tentativo precedente era stato vanificato dalla robu­stezza dei Lince, pare che colo­ro che hanno messo insieme queste bombe si siano prefissi di dotarle di una forza sufficien­te a vincere la resistenza dei blindati. Proprio 10 giorni fa, a 20 km da Farah, era stato fatto esplodere un ordigno destinato a colpire un nostro Lince, ma con un effetto scarso: erano sta­ti feriti leggermente tre soldati. Questa ostinazione a colpirci non può che essere la conse­guenza dell’attacco americano su vasta scala.

Ma perché gli americani si sono concentrati proprio su quella provincia?
Ne abbiamo già parlato l’ulti­ma volta che abbiamo discusso dell’Afghanistan. L’Helmand è una terra ricca di grano e di op­pio. La metà di tutto l’oppio af­gano, che alimenta il 90% del mercato mondiale, è prodotta qui. Con i soldi dell’oppio, i tale­bani finanziano la propria atti­vità e, se serve, quella dei loro alleati al-qaedisti . L’Helmand è vicino alle 7 province pakistane famose per il fondamentali­smo. Ricorderà che l’esercito pakistano è riuscito una venti­na di giorni fa a cacciare i tale­bani da Islamabad, da dove ave­vano instaurato una specie di governo della sharia. Nell’Hel­mand è lo stesso. I talebani ne hanno fatto una specie di domi­nio personale, da cui traggono forza. La strategia di estromet­terli sembrerebbe sensata, tan­to più che in agosto ci sono le elezioni presidenziali ed è im­portante che si svolgano senza intoppi. Ieri Obama, ricevendo alla Casa Bianca il premier olan­dese, ha parlato proprio dell’Af­ghanistan, dato che anche gli olandesi sono impegnati in quel conflitto (ma con la Nato, come noi): «Tutti noi cerchia­mo una strategia d’uscita effica­ce dove sempre più l’esercito, la polizia, i tribunali e il gover­no dell’Afghanistan stanno as­sumendo responsabilità sem­pre maggiori per la tutela della loro difesa». Il suo obiettivo di­chiarato è di restituire l’Afgha­nistan agli afgani. Qualcosa di molto difficile da realizzare.

Non sarebbe ora che ce ne an­dassimo anche noi? Quanti dei nostri sono morti laggiù?
Quattordici militari in cinque anni. Però non tutti in combatti­mento. Uno di morte naturale, qualche altro per incidente. In ogni caso, c’è un impegno inter­nazionale condiviso anche dal­l’opposizione: non siamo lì a combattere, ma ad operare per la ricostruzione.

Da quanto tempo Di Lisio stava laggiù?
Da quattro mesi. E, se ho letto bene una sua frase su Face­book, doveva rimanerci per al­tri tre. Su Facebook, dove ades­so c’è un gruppo in suo nome che ha subito registrato un cen­tinaio di iscritti, aveva anche annotato: «La guerra è uno sporco lavoro, ma qualcuno do­vrà pur farla». [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 15/7/2009]