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 2009  luglio 15 Mercoledì calendario

ROMA-MILANO, IL DUELLO INFINITO DA SORDI ALLE INVETTIVE DI MORETTI


Gag sulla capitale e stereotipi sui lombardi: scene cult al cinema

Il caso La sfida dei dialetti nella nostra commedia mentre la Lega critica i film «in romanesco» e propone più storie padane

Contrordine, padani! Non ridere­mo più sentendo la voce baritonale di Alberto Sordi aspirante vedovo che con il suo indimenticabile «accento» meneghino domandava: «Ma cosa fa, chì a Milàn cun stu cald?». O il povero Aldo Fabrizi che per mascherare la sua curiosità da guardia (mentre chie­de informazioni sulle abitudini del la­dro Totò) si schermisce sostenendo: «Poliziotto? No, no... mi son de Mi­làn ». Basta, d’ora in poi le storie pada­ne saranno raccontate da veri padani e interpretate solo da padani doc: Bos­si dixit all’inagurazione della Manifat­tura Tabacchi riconvertita in «casa del cinema milanese». E peccato che non ci sia più Guido Nicheli, l’attore berga­masco specializzato nella macchietta del milanese sguaiato e sbruffone, per­ché per lui si sarebbero forse aperte luminose carriere da protagonista do­po una vita da spalla.

Basta! Basta inflessioni romane­sche nelle fiction televisive, rincara il ministro Castelli. Peccato che se ne ac­corga solo quando l’accento riguarde­rebbe un papa bergamasco e non ab­bia mai detto niente quando la fretta di editare troppi telefilm esteri aveva portato alla fine della scuola italiana del doppiaggio, cancellando ogni par­venza di buona dizione (quella, per esempio, che il super-romano Ferruc­cio Amendola sapeva mettere in cam­po quando offriva le sue apprezzatissi­me sfumature capitoline a Stallone e De Niro, ad Al Pacino e Dustin Hoff­man). E sarà curioso scoprire con che accento si esprimerà l’israeliano – e non proprio esempio di perfetto dici­tore – Raz Degan, scelto dal regista Renzo Martinelli per interpretare Al­berto da Giussano, il condottiero sim­bolo del riscatto padano contro i bar­bari extracomunitari in Barbarossa.

Ma forse un basta andrebbe detto a certi discorsi che si preoccupano più di infiammare l’animo leghista che di aiutare davvero un ipotetico cinema lombardo a crescere. La purezza non è mai stata una caratteristica fondante della settima arte e proprio a comin­ciare dai registi milanesi l’esercizio del pastiche regionalistico è stato un percorso che ha dato molte e belle riu­scite. Come ha fatto il milanesissimo Alberto Lattuada, che ha diretto due dei film più corrosivi sulla Sicilia e la sicilianità, Mafioso e Don Giovanni in Sicilia (il primo con Alberto Sordi, il secondo con Lando Buzzanca), usan­do in entrambi Milano e i suoi miti’ l’efficienza e la professionalità nel la­voro, la mondanità e l’erotismo nel so­ciale – per innescare battute e gag. Per non parlare del ligure ma milane­se d’adozione e d’educazione Renato Castellani che tra i primi ha saputo scherzare sull’immagine che le abitu­dini milanesi sembravano accreditare nel resto d’Italia, per esempio quando in primavera fa dire da una compa­gna di viaggio alla timida Elena Varzi che sta «salendo» in treno verso il ca­poluogo lombardo che «i milanesi so­no gente cattiva, perché non mangia­no la pasta come noi.... Mangiano po­lenta ».

Inevitabile, allora, che il cinema del resto d’Italia giocasse allo stesso mo­do con gli stereotipi della milanesità, visto che proprio le macchiette comi­che lombarde erano le prime a pren­dere in giro le «virtù» meneghine, a cominciare da Tino Scotti e il suo «Ghe pensi mì. Ghe: nome; pensi: co­gnome; mì: targa, Milano», per conti­nuare con Walter Chiari che in Walter e i suoi cugini (innocua satira di Roc­co e i suoi fratelli) interpreta un pedo­ne che nemmeno ai semafori smette di far correre le gambe... perché il mi­lanese ha sempre fretta e non può mai fermarsi. Così, quando un roma­no capita al Nord, come il vigile urba­no Alberto Rodolfi, esiliato sotto il Duomo per eccesso di attivismo, il fi­nale non può essere che l’elencazione dei pregi locali, che immancabilmen­te finiscono in «ùn»: nebiùn, panetùn e naturalmente magùn. Da ascoltare pronunciati con la voce stentorea di Alberto Sordi (in Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo).

Se Totò e Peppino sbarcano a Mila­no bardati come in Siberia (per via del­la nebbia «che non si vede») e senten­do parlare un vigile in milanese si cre­dono di fronte a un tedesco, non è che la milanesissima Mariangela Mela­to si comporti con minor cattiveria co­mica descrivendo le manie e le arro­ganze di una sciurètta che fa naufra­gio in Sardegna. E se il napoletan-fru­sinate Vittorio De Sica può essere un elegante autista milanese in Gli uomi­ni che mascalzoni, perché mai il figlio Christian non potrebbe divertirsi (e di­vertire) inventandosi una cadenza me­neghina in Sapore di mare?

Il fatto è che la milanesità è prima di tutto uno stato d’animo, una condi­zione dello spirito e come tale – al­meno al cinema – appartiene a tutti, dal «terrunciello» di Eccezzziunale... veramente al vampiro che «mangia la cadrega» in Tre uomini e una gamba.

E, speriamo prossimamente, a molti altri volti e accenti non lombardi. Or­mai sono passati trent’anni dalle invet­tive linguistiche di Michele Apicella in Ecce bombo («Silvia, non la Silvia. Fortunatamente siamo a Roma, non a Milano: la Silvia, il Giorgio, il Pannel­la,

il Giovanni») e anche Nanni Moret­ti ha smussato i suoi tanti spigoli. Sa­rebbe davvero un peccato (e un erro­re) se, per favorire la nascita di un po­lo cinematografico a Milano, proprio i lombardi costruissero una nuova li­nea gotica, geografica e linguistica.