
Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Bisogna credere alla profezia della Cgil secondo cui non godremo mai più di stipendi col potere d’acquisto del 2007 e, per riavere lo stesso numero di occupati, dovremo aspettare l’anno 2076?
• Come fanno ad arrivare a risultati simili?
È uno studio di Riccardo Sanna, dell’ufficio economico del sindacato, intitolato La ripresa dell’anno dopo - Serve un Piano del Lavoro per la crescita e l’occupazione.
Nel 2007 erano impiegate in Italia 25.026.400 persone, dice Sanna. A questo numero, secondo lui, torneremo solo tra 63 anni, dopo aver attraversato un lungo tunnel di inflazione, calo della produttività e perdita di valore dei salari. Si parte dalla situazione di contesto. Dal 2008 il Pil perde mediamente 1,1 punti percentuali ogni anno mentre i posti di lavoro diminuiscono di oltre 1,5 milioni rispetto al 2007. I salari lordi perdono lo 0,1% ogni anno (quelli netti lo 0,4%), la produttività è mediamente negativa dello 0,2%, così come gli investimenti diminuiscono, sempre in media, di 3,6 punti l’anno. Crescendo ogni anno dello 0,7% - così come previsto dall’Istat per il 2014 - il livello del Pil pre-crisi verrebbe recuperato nel 2026, il tempo necessario per colmare il gap di 112 miliardi tra il Pil del 2014 (1.380 miliardi) e quello del 2007 (1.492 miliardi). Il livello dell’occupazione tornerebbe soltanto nel 2076, il livello di produttività nel 2017 e il livello degli investimenti nel 2024. Non si recupererà mai invece - secondo Sanna - il livello dei salari reali.
• Lei ci crede?
Mah. È intanto abbastanza astratto fingere che il contesto generale nel quale ci muoviamo resti sempre lo stesso. Le faccio il primo esempio che mi viene in mente: e se da un certo momento in poi l’Africa cominciasse a crescere agli attuali ritmi cinesi? Non sarebbe questo per noi un mercato di sviluppo ovvio e un formidabile magnete per la nostra crescita? E se, sperabilmente in un posto lontano, scoppiasse un conflitto importante? La distruzione generata dalla guerra è foriera di formidabili spinte sul Pil (basta guardare l’andamento del Pil negli Usa prima e dopo il Secondo confliutto mondiale). E se il problema energetico si banalizzasse? E se l’Italia si dividesse in due?
• Una divisione in due dell’Italia porterebbe qualche vantaggio?
Il fatto è che Nord e Sud sono profondamente diversi e i dati del Paese, e la profezia sul nostro futuro, cambierebbero di colpo se l’attitudine mentale, gli investimenti e il contesto meridionale (leggi: prevalenza della criminalità) si modificasse. C’è un altro studio diffuso ieri che riporta in auge, dopo troppo tempo, la questione meridionale. Il documento appartiene al 24° Report Sud di Diste Consulting-Fondazione Curella e dice che mentre il Sud negli ultimi cinque anni ha distrutto 335 mila posti di lavoro il Nord ne ha creati 12.400! Quindi anche la profezia di Sanna va riguardata con un altro occhio, se si distingue tra le due parti del Paese. Il tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno è del 17,2%, al Nord dell’8%. Nel 2012 il Pil meridionale è andato già del 3,4%, quello del Centro-Nord del 2%. Le medie che ci vengono consegnate dai vari istituti di ricerca e dalle analisi politiche non ci fanno vedere queste differenze, le quali ci dicono che la riflessione più forte, il cambiamento più importante andrebbe dedicato al Sud: questo cambierebbe di colpo tutto il quadro, perché già oggi la Lombardia - leggiamo nel Rapporto - è tra le regioni più sviluppate d’Europa, al livello della Germania e/o della California. Scrive Piero Busetta, presidente della Fondazione Curella: « Nel Mezzogiorno su 21 milioni di abitanti ci sono solo 6 milioni di occupati, compreso il sommerso. Per arrivare non dico agli standard della Finlandia, ma semplicemente al tasso di occupazione dell’Emilia Romagna, dovrebbero lavorare altri tre milioni di persone. Impossibile? Eppure l’ex Germania dell’Est in poco più di 10 anni ha raggiunto standard occidentali». Busetta suggerisce di mettere sotto tutela la classe dirigente meridionale, dimostratasi incapace di gestire le risorse di cui dispone. Non sarebbe una cattiva idea.
• Non sarebbe una mossa colonialista?
Il fatto è che il Paese e le sue logiche, al Sud e al Nord, vanno rivoltate come un calzino, oppure non se ne esce. Qualche segnale di consapevolezza c’è. Ieri il presidente del Consiglio Enrico Letta ha parlato al festival dell’Economia di Trento e finalmente ha indicato con chiarezza i due nemici contro i quali ci andiamo sgolando anche noi da anni: il debito pubblico e il costo del lavoro. Non possiamo più vivere di debiti e l’enorme peso che grava sugli stipendi della gente va alleggerito. Per far arrivare a un lavoratore duemila euro al mese il datore di lavoro deve tirarne fuori cinquemila! Anche il governatore della Banca d’Italia, nel discorso dell’altro giorno, ha detto cose simili.
• Che cosa in particolare?
Che il costo del lavoro va abbassato e che il debito va combattuto. Ma ha anche ammonito, finalmente, gli imprenditori: smettano di aspettarsi l’aiuto dello Stato, tirino fuori i soldi dalle loro tasche, investano, ricerchino, ricomincino a produrre come sapevano fare una volta.
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