Guido Vitiello, la Lettura (Corriere della Sera) 02/06/2013, 2 giugno 2013
IL BELLO DEL CAPITALISMO
Il capitalismo, ovvero l’opera d’arte totale. Possibile? Tutti gli indizi puntano all’evidenza contraria, e cioè che il mercato sia nemico giurato dell’arte, che sia all’origine di una propagazione capillare del brutto. Con gli anatemi scagliati per due secoli, dai tempi di Ruskin a quelli di Adorno, si potrebbe mettere insieme una requisitoria micidiale, una lista sfiancante di capi d’accusa: la profanazione industriale della natura, le metropoli caotiche e asfissianti, l’invasione delle catene alberghiere e dei franchising commerciali che accomunano tutti i luoghi in una sola insignificanza, le cavallette devastatrici del turismo di massa, la paccottiglia kitsch prodotta in serie e rovesciata quotidianamente in grembo al mondo intero, l’inquinamento visivo dei cartelloni pubblicitari, il neon che rende spettrali piazze e monumenti...
In breve, l’inferno estetico. Non sembra facile ribaltare una sentenza così ben motivata, ed è una ragione in più per incuriosirsi al nuovo libro nato dal sodalizio tra due saggisti francesi, il sociologo Gilles Lipovetsky e il letterato Jean Serroy. S’intitola L’esthétisation du monde (Gallimard) e descrive l’epoca del «capitalismo artista», un’epoca in cui i dominii dell’estetica e dell’economia si compenetrano come mai era avvenuto prima.
L’arte sposa l’impresa. È un matrimonio d’interesse, certo, ma anche d’amore ricambiato, tant’è che va avanti da più di mezzo secolo: l’arte cessa di essere un contro-mondo ombroso e segregato ed entra pienamente nella logica imprenditoriale; l’impresa creativa fa propri gli stili e i capricci della bohème. Dalla strana unione si genera un sistema estetico-economico che gli autori si raffigurano organizzato in quattro gironi, seppure non infernali: nel primo, il più interno, sta l’industria culturale con i suoi comparti (cinema, musica, editoria, fumetti, videogiochi), la sede deputata alla produzione estetica seriale; il secondo cerchio comprende tutti quei settori che operano per abbellire la vita quotidiana (architettura, design, moda, cosmetica, gastronomia); nel terzo si contempla l’arte propriamente detta (gallerie, esposizioni, biennali, musei), che quanto più si fa esoterica tanto più si trova al centro di una febbre speculativa; il quarto e più remoto girone è quello in cui si producono gli strumenti tecnici che rendono possibile questa perenne fucina creativa, dove tutti sono a un tempo artisti e spettatori. Il risultato è una «inflazione estetica» incontenibile, e il pubblico è condotto — la formula ammicca a Kierkegaard — a una sorta di «stadio estetico del consumo», una disposizione perenne alla stimolazione dei sensi. Sul pinnacolo di questo tempio della bellezza diffusa e democratica svetta, neppure a dirlo, la Apple di Steve Jobs, l’imprenditore-artista che con i suoi oggetti totemici, dall’iPod all’iPhone, ha segnato la via per l’opera d’arte dell’avvenire.
Lipovetsky e Serroy non ricorrono a queste formule wagneriane e avanguardistiche, ma viene naturale prestargliele, perché il loro libro suona come un’apologia del mondo nuovo, un poema-manifesto un po’ prolisso (un futurista se la sarebbe cavata in mezza pagina), tre quarti inno e un quarto elegia. Dell’eroe eponimo, il «capitalismo artista», propongono anche una genealogia: dopo l’arte per gli dei, l’arte per i principi e l’arte per l’arte, trionfa oggi l’arte per il mercato.
L’anello decisivo della catena sono le avanguardie del primo Novecento. Fu infatti nel grande cantiere aperto da futuristi, costruttivisti e surrealisti che si tentò la prima estetizzazione del mondo. Quell’arte che i borghesi avevano confinato nei musei e relegato nella hegeliana «domenica della vita», si doveva liberarla perché contagiasse anche i giorni feriali, le strade, le case, il lavoro. Ebbene, a sentire Lipovetsky e Serroy, la promessa che le avanguardie non seppero mantenere — l’abbattimento del muro divisorio tra arte e vita — l’ha esaudita a suo modo il «capitalismo artista». Nel suo regno anche il più insulso dei cavatappi è un oggetto di design, ogni gabinetto è un ready-made di Duchamp, gli artisti disegnano orologi e poltroncine, la Bmw produce cabriolet «Magritte» e Picasso è ormai un marchio registrato.
La tesi non è così nuova, e la si è declinata anche in modi meno enfatici e più sottili. Dopo il «socialismo della bellezza» di Beltrami saremmo dunque al capitalismo della bellezza? Comunque la si pensi, la ricostruzione ha una lacuna vistosa, diciamo pure una voragine: in tutto questo andirivieni tra l’estetica e l’economia, i due autori si sono scordati della politica. Eppure è su quel terreno che si sono svolti primi e più radicali esperimenti di estetizzazione totale: l’idea di plasmare la vita e la società come un’opera d’arte, un sogno bifronte estetico-politico nato nell’Ottocento di Novalis e di Wagner, fu realizzata in forme aberranti da un wagneriano spurio come Hitler, che volle fare della Germania il suo Gesamtkunstwerk (opera d’arte totale), e in modi diversi nella Russia staliniana. Certo, l’Artista collettivo del capitalismo è un demiurgo mille volte più mite, e alla politica offre al massimo qualche imbeccata retorica (non dimentichiamo lo «Stil novo» di Matteo Renzi, che va predicando ogni giorno che a salvarci sarà la Bellezza, sotto l’egida di Steve Jobs e di Leon Battista Alberti). Ma quei precedenti così truci dovrebbero almeno immunizzarci dal tratto beffardo, parodistico, che assumono fatalmente le utopie realizzate. Sono come i desideri delle fiabe: esaudirli è una sciagura.
Re Mida chiese a Dioniso il potere di tramutare in oro tutto quel che toccava, e poco mancò che morisse di fame, perché anche una pagnotta gli diventava tra le mani un’immangiabile pepita. Non è escluso che, a voler tramutare tutto in arte, la nostra condizione somigli un poco alla sua.
Guido Vitiello