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 2013  giugno 02 Domenica calendario

ALCOL, AUTO, TALISMANI: L’ALFABETO DI CARVER - L’

ultima cosa che fece Raymond Carver nella sua vita, davvero l’ultima, fu guardare con la moglie Tess il filmino della loro festa nuziale. Nel video girato un mese prima c’erano gli amici di sempre e un gatto che di colpo aveva pensato di invadere la scena e creare un po’ di scompiglio. Poi era accaduto l’imprevisto: Ray e Tess si erano scambiati un lungo bacio ai margini del gruppo. Quando gli invitati se ne erano accorti avevano sollevato i calici, commossi. Sapevano che quel gesto d’amore era un finale di racconto. Carver era ammalato da tempo, la possibilità di scamparla aveva già abbandonato il più grande scrittore di short stories del ventesimo secolo. Così, oltre la malattia, oltre la goffaggine e la discrezione che lo distinguevano, l’autore di Cattedrale aveva baciato sua moglie come non aveva mai fatto. Lieve, profondo, e sì, un poco timido.
Il video andò avanti, i due sposi lo guardarono per intero, poi Carver si addormentò. Morì all’alba, aveva cinquant’anni e alle spalle un pugno di opere fondamentali, un divorzio, due figli, un passato di alcolismo e, sissignore, l’incontro con la donna che vale tutto. A lei confidò sottovoce il verso più importante: «E hai ottenuto quello che/ volevi da questa vita, nonostante tutto?/ Sì./ E cos’è che volevi?/ Potermi dire amato, sentirmi/ amato sulla terra».
Quella percezione di amore sopravvive oggi nelle storie di Carver. Negli studenti che l’hanno avuto come insegnante all’Università dell’Iowa. Sugli oggetti che ha lasciato nella casa a Port Angeles. Rivive negli scatti di un fotografo, Bob Adelman, che nel 1982 fu incaricato da «Life» di un servizio sull’autore di Vuoi star zitta, per favore?.
L’intesa fu tale che lo scrittore di Yakima acconsentì a spingersi al di là di quel reportage. Il risultato è Carver Country, l’alfabeto carveriano in immagini, lettere inedite, testimonianze uniche (magnifica la postfazione di Tess Gallagher): uscì in Italia nel 2006 per Contrasto (curato da Sara Antonelli), ora Einaudi lo riporta in libreria. È l’eredità intima dello sguardo di Ray Carver, e del cosmo che l’ha generato. Senza abbellimenti o patina, senza trucchi da quattro soldi.
Una macchina, dozzine
di esistenze: e ora, maledizione, perché ti sei fermata?
L’automobile fu il tormento di Carver. Nella miseria e nella fama. Bob Adelman fotografò numerose auto dello scrittore, alcune gli appartenevano o gli erano appartenute, altre gli erano state attribuite per diritto di somiglianza. Tutte avevano in comune la carrozzeria ammaccata e un motore pronto a tirare le cuoia. La macchina era l’antidoto alla solitudine di Raymond, l’emblema di una possibile fuga dagli assilli quotidiani. Carver divenne padre a diciannove anni, sposò la madre del suo bambino, Maryanne, con cui ebbe un secondo figlio. Era un amore acerbo e tartassato dagli stenti. Appena poteva Ray si metteva al volante, da solo, e andava. Le illusioni cambiavano, le mete erano eternamente le stesse: verso un lavoretto che gli facesse sbarcare il lunario o per l’ennesimo trasloco. In direzione di un corso di scrittura o di una bottega di liquori. Oppure, semplicemente, per tirare il fiato. Mentre guidava custodiva un terrore: che la macchina si guastasse. Cosa che puntualmente accadeva. Così quando il successo arrivò e gli mandarono i primi soldi veri, Tess Gallagher racconta come Carver si fosse precipitato a un concessionario Mercedes e avesse chiesto a un venditore sbigottito di provare l’ultimo modello. Di lì a poco avrebbero testato la nuova Turbo Diesel 3000 in lungo e in largo, a Carver non gli pareva vero di potersi permettere un’auto così affidabile. La comprò. «Come intende pagare?», chiese il venditore che non era riuscito ancora a togliergli gli occhi di dosso. «In contanti», rispose Carver. Solo allora si accorse di essere uscito di casa in pantofole.
Vuoi chiudere gli occhi,
per favore?
A metà di Carver Country c’è il ritratto di un uomo seduto su un divano, il tavolino di fronte a lui trabocca di mozziconi di sigarette. In mano ha un bicchiere d’acqua, più probabile sia gin o vodka. L’uomo si chiama Jerry Carriveau ed è cieco. Ha ispirato Cattedrale, il racconto più famoso di Carver. Raymond se lo ritrovò a casa un pomeriggio di maggio quando Carriveau andò a far visita a Tess, sua vecchia collega nel dipartimento di polizia. Quel giorno Carver percepì lo sguardo di un cieco su un vedente. È l’epifania di un futuro capolavoro, l’unico racconto che lo scrittore di Yakima avrebbe mai scritto in treno. Cattedrale ebbe un’altra eccezione: Carver si affidò a sua moglie per lavorarlo al meglio. Tess conosceva così bene Carriveau che seppe far vedere al marito il mondo senza occhi.
Pannolini, cessi, garage:
da dove sto scrivendo.
L’ossessione di Carver era la povera gente, le illusioni dissolte, i tentativi di rialzarsi. Conosceva l’architettura del disagio. I motel al neon e i parcheggi deserti, le case scalcinate con il bagno all’aperto. La sua infanzia era stata costellata di cessi in giardino, continuò ad averli intorno mentre il mondo si modernizzava con toilette da appartamento. Un giorno un professore lo accompagnò a casa in macchina e per la vergogna il giovane Ray si fece lasciare all’entrata dei vicini, nel loro cortile c’erano solo alberi e altalene. Anche da adulto Raymond si sarebbe abituato a fare i suoi bisogni fuori casa: si era appena trasferito in una vecchia topaia quando uno dei figli cominciò a frignare senza fine, la moglie a lamentarsi, il telefono a squillare. Carver cambiò il pannolino al moccioso, poi provò a scrivere in cucina. Non ci riuscì. Disse alla moglie che sarebbe andato in garage, un capannone di legno pericolante. Ci parcheggiò la macchina dentro e restò al posto di guida. Appoggiò il taccuino sul volante e buttò giù l’abbozzo di Meccanica popolare, uno dei suoi racconti migliori. Narra di un bambino conteso tra due genitori che si stanno separando. Nessuno dei due vuole cedere, uno lo prende per le gambe e l’altro per le braccia. La faccenda si risolve con una separazione brutale. L’arte di Carver nacque dalle privazioni e nelle baracche che le ospitavano. Bob Adelman lo capì subito e ritrasse queste cattedrali di solitudine.
Un pugno di talismani.
Nel nome di Anton.
La macchina da scrivere, tre taccuini e il fermacarte, una penna, il posacenere e le sigarette. Sono i totem di Carver contro i demoni della pagina bianca. Li teneva nello studio che durante il lavoro abbandonava solo per una pausa-caffè con Tess. Certe volte per pescare. Era ai piani alti della casa di Port Angeles, la stessa che gli diede la scrittura più felice. «Non ho mai vissuto prima un periodo in cui raccontare mi abbia dato tanta gioia. Mi sentivo ardere». Mancavano i ritratti dei figli e della madre. C’era quello di Anton Cechov.
Torna a casa, tesoro.
Il bicchiere è già pieno.
Carver si azzuffò con l’alcol per una buona parte dei suoi giorni. Per spiegare il buco che Ray riempiva con il gin, Tess Gallagher prese in prestito un’espressione operaia dei suoi tempi, «A forza di perdere, mi sa che non riesco a vincere più niente». Il logorio della sconfitta portò lo scrittore a un passo dall’autodistruzione: alzò il gomito per un matrimonio fallito e per la povertà che gli stava alle calcagna dall’infanzia, segnata da un padre che non aveva un becco di un quattrino ed era spesso sbronzo. Sono due eredità che accompagneranno lo scrittore finché decise di ripulirsi. Lo fece per Tess e per la scrittura, da anni Carver se ne stava con le mani gonfie alla macchina da scrivere senza battere un tasto. Fu la battaglia più difficile, la vinse. Anche se rischiò di mandare tutto all’aria mentre si dirigeva a un incontro degli alcolisti anonimi. Non trovava la strada, così accostò la macchina davanti a un bar. Entrò e chiese un cocktail. Poi chiamò la moglie: «Ho ordinato da bere, ma non ho toccato il bicchiere, è ancora lì sul balcone».
Le parole giuste, questa volta, le trovò Tess: «Torna a casa, tesoro. Rimettiti in macchina e torna a casa. Quei demoni ormai ce li siamo lasciati alle spalle».
Lui la ascoltò.
Marco Missiroli