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 2013  giugno 02 Domenica calendario

L’EMPATIA E’ UN’ARTE CONTRO LA SOLITUDINE —

La 55ma Biennale d’arte di Venezia si è inaugurata ieri con l’assegnazione dei Leoni d’oro. Quello per il miglior padiglione nazionale è andato a uno dei dieci Paesi esordienti, l’Angola, con «Luanda, Encyclopedic City» (all’isola di San Giorgio); quello per il miglior artista al britannico Tino Sehgal (1976; ai Giardini); Leone d’argento per giovani alla francese Camille Henrot (1978; all’Arsenale). La giuria, presieduta da Jessica Morgan (Gran Bretagna) e composta da Sofía Hernández Chong Cuy (Messico), Francesco Manacorda (Italia), Bisi Silva (Nigeria) e Ali Subotnick (Usa), ha attribuito menzioni speciali all’americana Sharon Hayes (1970; all’Arsenale), a Roberto Cuoghi (1963; all’Arsenale) e alle partecipazioni nazionali di Cipro e Lituania. Presente alla premiazione, con il curatore Massimiliano Gioni a proprio agio anche in veste di «presentatore», la signora dell’Arte Povera Marisa Merz (1926), alla quale è stato assegnato un riconoscimento alla carriera. Con un siparietto del presidente Baratta, che voleva mettere la statuetta nella scatola e lei che se l’è invece portata via sottobraccio. Un analogo premio è andato all’austriaca Maria Lassnig (1919).
Ieri sera sono stati assegnati anche i premi Venetian Heritage, per ringraziare chi ha aiutato la città. Nelle sale di Palazzo Grimani sono stati premiati gli attori Tilda Swinton e Richard Gere, il baritono Thomas Hampson e Pasquale Gagliardi della fondazione Cini.
Vincitori e outsider. Il padiglione dell’Angola è una risposta al quesito posto da Gioni con la sua mostra «Il Palazzo Enciclopedico». «Nessun palazzo può contenere tutto l’universo — dicono Paula Nascimento e Stefano Rabolli Pansera, curatori del Padiglione Angola —, perché quando un palazzo è enciclopedico, diventa una città». Ovvero un territorio collettivo, di memorie e anche di futuro, «perché vogliamo presentare una nuova Angola», ha dichiarato il ministro angolano Rosa Cruz e Silva ritirando il Leone.
Sehgal (nel 2008 ha esposto al Pac di Milano per la Fondazione Trussardi, curatore Gioni), che ha proposto ai Giardini un tableau con due interpreti dialoganti, è stato premiato per «l’eccellenza e l’innovazione che la sua pratica ha portato aprendo il campo delle discipline artistiche». La sua opera, dice l’artista, «cerca di andare oltre la filosofia della solitudine che ha caratterizzato il Novecento». Alla sua capacità di creare empatia con l’osservatore è stato dedicato recentemente, dall’Associazione di Neuroestetica, un convegno sulla capacità dell’opera di Sehgal di essere empatica.
I critici per Gioni. Il premio all’Angola (non quello a Sehgal) testimonia uno sforzo di questa Biennale: uscire un po’ dal circuito glamour e mercantile, cercando di dare spazio anche agli outsider e a chi ha fatto arte con motivazioni esistenziali. Gioni ha affermato di aver visitato i musei di Folk Art, che «costituiscono una base dell’antropologia», prima di realizzare l’esposizione. La bulimica mostra ne raccoglie alcuni aspetti, specie etnico-spiritualistici: talvolta, sembra di passeggiare in un’ordinatissima galleria di ex voto.
Critici e collezionisti hanno per lo più apprezzato l’esposizione, con riserve sullo sguardo all’indietro. «Cimiteriale», per Sgarbi e altri; ma nel complesso promossa. Bonito Oliva parla di «mostra antropologica che riparte da un’idea, come nel ’93», Renato Barilli di «tendenze surrealiste, tra dilettanti e qualche strizzata d’occhio allo star system», Bice Curiger di una «reazione al sistema dell’art-fair», Patrizia Sandretto Re Rebaudengo di occasione «per non vedere i soliti nomi».
Di contro, le artistar son finite nelle belle mostre dei palazzi sul Canal Grande, dalla Punta della Dogana alla Cini a quelle del Muve (Musei civici), ben curate nei risistemati palazzi Ca’ Pesaro e Fortuny, dove opere mai viste di Tàpies mostrano una totale empatia con il gusto orientalista dell’ex proprietario.
L’arte e il Vaticano. Ma se di spirito del tempo si deve parlare, questa Biennale — anche a giudicare dalla coda all’ingresso del padiglione (qualcuno, ironizzando, ricordava che non era concessa l’indulgenza) — è quella del dialogo che la Santa Sede ha voluto riaprire con l’arte. Il cardinale Gianfranco Ravasi intende dialogare con gli interpreti di crocefissioni choc e sculture come quella innalzata da Marc Quinn davanti alla Chiesa di San Giorgio, che sta facendo infuriare il patriarca (ma per l’artista è «un’opera in difesa della vita»). «I crocefissi violentati — dice Ravasi — testimoniano che i grandi simboli cristiani sono ancora forti». Anche se papa Francesco spinge a «esplorare il campo tra economia e antropologia per superare la crisi di un mondo ordinato dalla finanza», l’appuntamento è confermato per la prossima Biennale d’arte (2015). In mezzo, però, ci sarà la Biennale di architettura: «L’arte che meno si è separata dalla Chiesa — ricorda Ravasi — è in grado di lavorare in luoghi degradati, come ha fatto Richard Meier a Roma: la sua chiesa evita che ai poveri sia negata anche la bellezza». Il Vaticano raccoglierà probabilmente l’invito anche per la Biennale di architettura (2014), forse sperimentando anche una collaborazione con il Maxxi di Roma.
Più cinema a Venezia. «Voglio che Venezia torni a essere una grande mostra del cinema, individuando le risorse necessarie». Parola del titolare dei Beni culturali Massimo Bray. Presenza discreta, alle prese con un compito per cui non basterebbe la lampada di Aladino: fare il ministro del Paese con più beni culturali, ma senza soldi. «Per una grande mostra — ha detto — bisogna incrementare il mercato e pensare agli spazi necessari».
Archiviato il nuovo Palazzo progettato da Rudy Ricciotti, si punta al recupero dei vecchi spazi. Ma non con i soldi della Biennale: «Noi abbiamo già messo sette milioni», dice Baratta. La Biennale riceve 4,2 milioni all’anno dallo Stato per le sue attività, più un finanziamento di 7,5 milioni per il cinema. Le rassegne (cinema, arte, architettura) costano una dozzina di milioni ciascuna. Ma mentre quella d’arte riesce ad autofinanziarsi per oltre l’85 per cento (500 mila visitatori), e un po’ meno quella d’architettura (250 mila), il cinema (70 mila visitatori in sala) tiene «prezzi contenuti anche per i giovani» e si autofinanzia per il 30 per cento. Così si sottolinea che per Documenta lo Stato tedesco eroga ben 25 milioni, per Toronto ne arrivano 23, 19 a Berlino e a Cannes 22.
Pierluigi Panza