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 2013  giugno 02 Domenica calendario

TULLIO DE MAURO

L’ultima immagine che mi cattura, dopo un paio d’ore trascorse con Tullio De Mauro, è lui alla finestra mentre fuma e io dal basso della strada che lo saluto. La scena si svolge in una stradina del quartiere Salario di Roma. Fa un cenno con la mano. Poco più che un movimento, come per dire ci sono, l’ho vista. Ma c’è davvero questo professore di 81 anni i cui pensieri sembrano portati sulla punta delle sue inconfondibili orecchie alate? Non so quanto quest’uomo abbia chiesto alla vita e ricevuto. Certo il successo accademico, i libri scritti (alcuni importanti), la politica, il ministero della Pubblica Istruzione, la Treccani, il premio Strega sembrano suggerire che a fine carriera il saldo sia largamente attivo. Eppure, tra le righe di questa esistenza tranquilla, si indovina un’irrequietezza smorzata dalla routine, una vita che va oltre quell’insieme di accorgimenti retorici con cui la si racconta, apparentemente senza dolore, senza spasmi, senza incertezze. Mi sforzo di trovare un punto di entrata, un passaggio a nordovest che renda questo impareggiabile cacciatore di parole anche un cacciatore di emozioni. Mi guarda, remoto ma al tempo stesso disponibile. Non rassegnato, ma attento a non lasciarsi cogliere di sorpresa.
Come è la vita di un linguista?
«Non diversa da quella di tutti gli altri. La nostra deformazione, se così la si può chiamare, sono le parole. Scatta come un sesto senso quando queste mutano, trasformano il senso; alcune hanno successo, altre tramontano. Un po’ come è la vita. Sono un termometro di ciò che accade nella società».
Che febbre misurano oggi?
«Nei duemila vocaboli di massima frequenza, che sono il cuore della lingua, sono entrate di forza un sacco di male parole. Giornali, televisione, Internet sono ormai un ricettacolo di parolacce. L’unico settore che ancora resiste è quello dei testi accademici».
C’è una differenza tra dire «rabbiosi» o «incazzati»?
«Sono sinonimi stretti. Ma il fatto che si sia più inclini a usare una mala parola, mi pare esprima un certo cambio di stile di pensiero e di costume. È l’Italia bassa e privata che sta prendendo il sopravvento».
E il linguista che fa?
«Prende atto. Non si possono ignorare il fattore tempo e la massa parlante se si vuole descrivere una lingua per come vive davvero. Lo ha insegnato più di un secolo fa Ferdinand de Saussure».
La lingua è storia?
«È un pezzo di storia. Saussure diceva che era un sedimento del bisogno di una comunità di esseri umani di esprimersi e di capire. Quindi un primato della storia che si intreccia però con la necessità di mettere ordine continuamente in questo sedimento».
A proposito di Saussure è lei che lo ha introdotto in Italia curando il Corso di linguistica generale.
«Un testo fondamentale della cultura europea. Ma poco letto almeno fino agli anni Sessanta. Devo al mio maestro Antonino Pagliaro le prime frequentazioni».
Personaggio controverso il suo maestro.
«È vero, dopo la guerra, fu epurato come fascista. Gli si chiedeva un atto di abiura. Lui tignoso reagiva dicendo “sono stato fascista e non ho niente da abiurare”. Venne radiato dall’insegnamento per la sua protervia. Alla fine fu riabilitato e gli dovettero restituire anche due anni di stipendio che gli avevano sospeso».
Lo accusarono di aver diretto il Dizionario di Politica della Treccani.
«Un’opera tutt’altro che infame. Pagliaro chiamò a collaborarvi molti antifascisti».
Come aveva fatto Gentile con l’Enciclopedia Italiana.
«Certo, fu Gentile, tra l’altro, a scoprire allora questo giovanissimo ragazzo. Ma i due finirono per diventare nemici. E alla fine si odiarono come solo può succedere tra siciliani. Un odio antico fatto di incompatibilità scientifiche».
Uno era glottologo l’altro filosofo.
«Pagliaro disprezzava il vaniloquio filosofico di Gentile».
E il suo rapporto con il fascismo?
«Avevo quattro anni, ma ricordo una grande emozione per il discorso della proclamazione dell’Impero. Non avevamo ancora la radio e la popolazione veniva portata nelle grandi piazze. Con la mia famiglia andammo a piazza del Plebiscito e attraverso gli altoparlanti ascoltammo il discorso del Duce che mi coinvolse tantissimo».
È nato a Napoli?
«Sono nato a Torre Annunziata, un po’ per caso. La mia famiglia proveniva da Foggia. In seguito mio padre, che era chimico e farmacista, aprì una farmacia fra Portici e Torre Annunziata. Ricordo meno il suo lavoro quanto invece che cambiavamo spesso casa. E la ragione di quei traslochi era dovuta a una certa inquietudine paterna, a un’insoddisfazione permanente che gli si leggeva in faccia».
E da cosa dipendeva?
«Non lo so. Era un uomo del fare. Non stava mai fermo. Da giovane aveva inventato un purgante effervescente al sapore di arancio e di limone. Una trovata niente male se si pensa agli intrugli che venivano somministrati. Propose a mio nonno, che aveva un patrimonio cospicuo, di finanziare il prodotto. Cosa che accadde. E fu un successo enorme che coinvolse l’Italia intera».
Diventaste ricchi.
«Macché. Solo alla fine si accorsero di aver sbagliato il conto economico. Per ogni bustina venduta perdevano un soldo. Fu un fallimento colossale. Mio nonno dovette vendere le sue proprietà e mio padre i beni che aveva. Ero piccolo, ma per anni la parola fallimento aleggiò nella casa come un orribile fantasma. L’unica cosa che non si riuscì a vendere furono i libri. E in fondo fu una fortuna perché su quelli appresi a leggere». [...]
L’immagine che di solito lei dà di sé è quella di uno studioso accademico molto posato, perfino un po’ noioso.
«Da giovane ero un rompiscatole terribile. Ne facevo di tutti i colori, cose di cui oggi mi vergogno solo a pensarle. Però col tempo ammetto di essere diventato più posato».
Quello che volevo dirle è che dietro questa apparente imperturbabilità lei nasconde sorprendenti curiosità intellettuali.
«A cosa allude?».
Per esempio ai suoi studi oltre che su Saussure, su Wittgenstein, in anni in cui pochi se ne occupavano.
«Wittgenstein mi ha aiutato a capire meglio Saussure».
Come sono stati gli anni dell’insegnamento universitario? Si dice che nell’ambito della linguistica ci fossero le due scuole: la sua e quella di Garroni.
«Con Emilio eravamo molto legati e la sua amicizia fu per me oltre che personalmente, intellettualmente fondamentale».
Che cos’è un maestro?
«Adoperiamo la stessa parola sia per quello che consideriamo il lavoro più umile con i bambini di una elementare, sia quello che trasmette il suo sapere ai discepoli. Roman Jakobson diceva che per diventare dei veri maestri non bisogna essere troppo precisi, ma un po’ confusi».
Cosa legge fuori dal suo lavoro di linguista?
«Molti romanzi italiani, come sa presiedo il Premio Strega».
E che idea se ne è fatto?
«Ci sono state edizioni del premio in cui concorrevano Sciascia, Pasolini, Moravia, Gadda. Quella qualità non esiste più. Però la produzione odierna è di tutto rispetto».
Chi l’ha preceduta – Maria Bellonci e Anna Maria Rimoaldi – interveniva e orientava pesantemente. E lei?
«Preferisco il ruolo del notaio, cercando di limitare l’invadenza dei gruppi editoriali. Ma il problema oggi è un altro: la fondazione vive con pochi soldi e molti debiti. Rischio di finire in prigione. Scherzo, naturalmente».
Prima che la mettano dentro un’ultima cosa: è soddisfatto per quello che ha realizzato?
«Potrei dirle che avrei dovuto fare molte altre cose che non sono riuscito a studiare. Ma cosa cambierebbe? Mia madre, quando ero piccolo, mi raccontava la storiella dell’Accademico di Francia che durante un pranzo viene interrogato da una signora: Perché il Polo Nord è così freddo? E lui: non lo so. Perché le cavallette emigrano? Non lo so. E così via. A un certo punto la signora si scandalizza e lui le risponde: vede, io sono pagato per quello che so, ma se dovessi essere retribuito per tutto quello che non so, non basterebbe tutto l’oro del mondo».