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 2013  giugno 02 Domenica calendario

MA NESSUN ANIMALE E’ ANIMALISTA

Non è facile, ma provate a mettervi nei panni di un maialino o di un vitello: siete appena venuti al mondo e vi attende una vita di prigionia e supplizi vari, destinata a concludersi con la macellazione. Vi trovate in balìa di un potere spietato, che vi tratta come oggetti. Ma non siete creature inanimate: provate fatica, dolore, paura. Non è terribile?
La sofferenza animale è una realtà tragica, che di solito gli umani rimuovono: uno dei pilastri della nostra civiltà è infatti il cosiddetto «specismo», per cui consideriamo le altre specie viventi come esseri inferiori, di cui possiamo disporre a piacimento. Un modo di pensare e agire che ormai da alcuni decenni viene condannato e combattuto da gruppi minoritari, ma risoluti e vivaci.
In genere si parla degli animalisti o «antispecisti» solo quando compiono azioni militanti clamorose, soprattutto contro la vivisezione. Ma dietro il loro attivismo non troviamo solo spinte emotive: c’è un retroterra filosofico che vale la pena di conoscere e valutare con l’aiuto del saggio Il maiale non fa la rivoluzione (Sonda), appena pubblicato dal giovane studioso Leonardo Caffo, un «vegano» che non solo si astiene dal mangiare carne, latte e uova, ma evita di usare oggetti (per esempio di abbigliamento) derivanti dallo sfruttamento degli animali.
È il filosofo australiano Peter Singer a lanciare per primo nel 1975 la parola d’ordine della liberazione animale: ciò che c’impone di proteggere un essere vivente, afferma, è la sua capacità di provare dolore, non la sua appartenenza alla specie umana. Si tratta di un approccio utilitarista, che condanna le sofferenze inflitte agli animali, ma accetta invece l’eutanasia neonatale di bambini menomati. Altro teorico dell’antispecismo è Tom Regan, che invoca il riconoscimento dei diritti fondamentali (alla vita, alla libertà, alla tutela dalla crudeltà) in favore delle bestie dotate di una soggettività cosciente. Il che significa abolire non solo la sperimentazione scientifica su esseri viventi, ma altresì la caccia, i circhi, i bioparchi, ogni allevamento a fini di lucro.
Tuttavia le posizioni dei due padri fondatori lasciano perplessi altri studiosi, che le reputano forme di specismo mascherato: «Salviamo l’altro da noi, l’animale non umano, solo perché simile a noi in qualcosa: dolore, diritti, ecc.», scrive in proposito Caffo. A suo avviso infatti le capacità intellettive dell’uomo non lo rendono «moralmente più rilevante» dell’armadillo o del gabbiano. Perciò la nostra specie dovrebbe deporre ogni pretesa di superiorità.

Qui però il ragionamento antispecista incappa in un’obiezione di fondo: se l’Homo sapiens va considerato un animale in tutto uguale agli altri, perché non dovrebbe comportarsi come la volpe con la gallina o il leone con la gazzella? Nessuna bestia riconosce diritti a individui di altre specie. Tra l’altro gli scienziati sostengono che le abitudini predatorie degli ominidi sono state importanti nella loro evoluzione, perché il consumo di proteine animali ne ha favorito l’espansione cerebrale e la pratica della caccia ne ha acuito le capacità cognitive, necessarie a competere con i grandi carnivori dotati di zanne e artigli. Per quanto possa apparire orribile, sembra proprio che uccidere e mangiare altri animali abbia contribuito a renderci umani. Ma se oggi ci poniamo i problemi sollevati dagli antispecisti, è proprio perché nella nostra evoluzione culturale abbiamo sviluppato una sensibilità morale di cui altri esseri sono sprovvisti. Ed è da questa «superiorità» che si può far derivare una responsabilità verso gli altri animali, con il dovere, se non altro, di alleviare le loro pene.
Ciò emerge anche dal libro di Caffo, quando l’autore enuncia la sua concezione etica dell’animalismo quale «movimento totalmente altruista, di sacrificio e rinuncia in favore dell’altro da sé». Non è un atteggiamento che si possa esigere dal vivente non umano: a nessuno verrebbe in mente di chiedere che una tigre, anche non troppo affamata, risparmi una preda per ragioni altruistiche.
Probabilmente però Caffo pretende troppo anche da noi. Come lui stesso ammette, l’uomo è segnato da quella che il filosofo israeliano Tzachi Zamir chiama «intuizione specista», cioè privilegia nettamente i suoi simili rispetto agli altri animali. Abbracciare un antispecismo conseguente significa «sacrificare buona parte di ciò che ci rende umani» (parole di Caffo) e se è vero che «in parte la cultura ha proprio la funzione di "reprimere", in senso non violento, alcune pratiche naturali dell’uomo», bisogna però riconoscere che l’Homo sapiens non è plasmabile all’infinito e comportamenti atavici quali il consumo di carne, almeno nella fase storica attuale, possono essere inibiti solo in parte.
Né sembra che il rimedio possa consistere nell’antispecismo politico di Marco Maurizi, con cui Caffo si confronta al termine del libro. Solo se si elimina il dominio dell’uomo sull’uomo, osserva Maurizi, si possono porre le condizioni per superare lo sfruttamento degli animali. Eppure i fallimenti storici dei movimenti anticapitalisti dovrebbero aver insegnato qualcosa, tanto più che Maurizi contesta non solo la società borghese, ma più in generale la rivoluzione neolitica, che segnò la nascita dell’agricoltura e della vita urbana. Di certo la nostra civiltà gronda sangue, ma non sembra consigliabile sovvertirne le fondamenta. D’altronde, senza la svolta del Neolitico, nessuno di noi sarebbe qui a discutere di filosofia.
Tutto ciò non significa negare il valore delle istanze poste dall’antispecismo. È sacrosanto battersi per ridurre il tasso di crudeltà esercitato sugli animali e per diffondere sempre di più una dieta vegetariana, che tra l’altro giova anche alla salute degli umani e agli equilibri ecologici del pianeta. Ma il pensiero antispecista radicale, per quanto utile come provocazione intellettuale, non pare in grado di uscire dal catalogo delle nobili utopie.
Antonio Carioti