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 2013  giugno 02 Domenica calendario

IL GIORNALISTA SCIENTIFICO CHE SCRIVE SOLO PAROLACCE

Avvertenza per l’uso: le perso­ne ­particolar­mente sensi­bili sono invitate ad astenersi dal prose­guire nella lettura. Qui, infatti, si narra di Vito Tartamella, 47 anni, compunto giornalista scientifi­co, caporedattore centrale del mensile Focus, che passa per essere il massimo esperto italiano di turpiloquio. A porgli sul capo la corona (di spine) è stato il ba­varese Reinhold Aman, residente in Ca­lifornia, ex docente in scuole e atenei sta­tunitensi, sicuramente l’autorità mon­diale riconosciuta in tema di parolacce, avendo fra l’altro fondato Maledicta, rivi­sta accademica dedicata allo studio del linguaggio offensivo, «uno scienziato squisito, mite, simpatico, che mi ha mol­to aiutato nelle mie ricerche», sparge in­censo Tartamella. I due si sono incontra­ti come relatori all’Università di Chambéry, in Francia, dove si tiene un conve­gno biennale per aggiornare la classifica planetaria delle scurrilità.
A tal proposito, premio subito i lettori licenziosi che sono arrivati al secondo capoverso informandoli che «Oh, merda!», declinata in tutte le lingue, è in asso­luto l’espressione rintracciata con più frequenza nelle scatole nere dopo i disa­stri aerei, mentre «cazzo» resiste al verti­ce delle preferenze italiche: «Già Italo Calvino aveva osservato che è una paro­laccia di espressività straordinaria, sen­za pari in altri idiomi». Tartamella ha compilato la statistica raffrontando mi­gliaia di dati, «non posso per il momento rivelare quali, dico solo che non si tratta di citazioni tratte dai giornali o da Inter­net», e mostra come prova una spanna di tabulati che costituiranno la base del suo prossimo lavoro, dopo il bestseller Parolacce, studio di 380 pagine uscito nel 2006 che spiega perché le diciamo, che cosa significano, quali effetti hanno. In un Paese dove il capo dello Stato teme che la violenza verbale porti all’eversio­ne, la presidente della Camera ricorre al­la polizia per difendersi dalle contume­lie via Web e il direttore del Tg La7 chiu­de il suo account Twitter nauseato dagli improperi, i due tomi dovrebbero esse­re adottati come libri di testo nelle scuo­le.
Solo un laureato in filo­sofia uscito nel 1992 con 110 e lode dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, fondata da pa­dre Agostino Gemelli, po­te­va affrontare con padro­nanza una materia inclu­dente persino le bestem­mie. Il titolo della tesi che preparò con lo psicolin­guista Ferdinando Doga­na, Psicosociologia del co­gnome, nasceva da uno shock infantile. «Sono figlio di un mare­sciallo maggio­re della Guardia di finan­za e di una maestra elementare originari di Trapani e, benché sia nato a Milano, i miei coetanei hanno sempre giocato sul mio cognome per offendermi in quanto terrone. Mi chiamavano Tarantella, Tar­tanella, Gargamella e io provavo un fasti­dio addirittura fisico per questo. Oggi non ci farei più caso. Ho persino ricevu­to per posta una pubblicità indirizzata al signor Vino Tavernella».
A spronarlo verso il giornalismo fu il padre Giovanni, che nel 1986 incappò in un annuncio strabiliante - specie se rilet­to in tempi di crisi dell’editoria - apparso sul Cittadino, bisettimanale cattolico di Monza e Brianza: «Cercansi collaborato­ri». «Mi presentai al caporedattore. “Che sai fare?”. Studio filosofia. “Uhm. Che altro?”. Suono il pianoforte. “Otti­mo. Ti occuperai di musica”. Alla terza stroncatura la mia carriera di recensore era già finita: me l’ero presa con un disco di Scialpi».
Ma Tartamella - oggi sposato con la collega Paola Erba di Rai News e padre di un bimbo di 5 anni - non si diede per vinto. Si buttò sulla cronaca, bianca e ne­ra. Fu reclutato da Brianza Oggi , nuovo quotidiano dell’editore Giuseppe Ciarrapico, che però chiuse dopo un anno. Passò come abusivo al Giorno, infine fu assunto. Quattro anni al Corriere di Co­mo, altri due al service Vespina di Gior­gio Dell’Arti, poi l’approdo a Focus.
Come reagì il direttore Sandro Boeri quando gli spiegò che voleva occu­parsi di parolacce? «Mi disse: “Fantastico!”».
Un direttore veneto le avrebbe risposto: «Ma va’ in mona!». «Era nata come idea per un servizio da affidare a qualche redattore. Alla fi­ne è diventato un libro e un blog, www.focus.it/pa­rolacce, che ci ha spalanca­to prospettive internazio­nali. La scrittrice americana Di­anne Hales mi ha de­dicato un capitolo nel suo volume La bella lingua».
Come mi regolo con lettori del Gior­nale , giustamente assai suscettibili? Metto i puntini di sospensione o no?
«Non saprei».
Ma non fa il caporedattore centrale?
«L’importante è che dal contesto si capi­sca ciò che dico».
Se scrivo c...o , non si capisce se sta parlando dell’organo davanti o di quello dietro. «Io eviterei i puntini di sospensione. La censura rende più evidente la parolac­cia, insegnava Claude Lévi-Strauss».
Però il lubrico Giacomo Casanova si limitava a nominare il c...o come «l’agente principale dell’umanità».
«Anche François Rabelais e Teofilo Fo­lengo hanno dimostrato una maestria assoluta nell’uso delle parolacce. E tra il poeta settecentesco Giorgio Baffo, vene­ziano, e I soliti idioti non c’è confronto».
Lei sostiene che il c...o sia diventato nell’odierna civiltà, o inciviltà, una sorta di jolly linguistico. «È così, ma aveva larga diffusione già nel Seicento, come attesta La rettorica delle puttane di Ferrante Pallavicino, canoni­co che fu fatto decapitare da Papa Urba­no VIII per i suoi libelli irriverenti. Oggi, a seconda delle circostanze, può espri­mere sorpresa, cazzo!, offesa, cazzone, elogio, cazzuto, rabbia, incazzato, ap­prossimazione, a cazzo, dissapore, scazzo.
Il corrispettivo femminile non gode certo di minore audience. Il professor Alessandro Roccati, egittologo alla Sa­pienza di Roma, ha raccolto un’antolo­gia di insulti scritti nelle cappelle della necropoli menfita durante l’Antico Regno, in papiri della fine del secondo millennio e nei “testi delle piramidi”. Fra questi, ricorrono spesso vulva, figa fottu­ta, putrida allargata, detto di Iside, e fem­mina senza vulva, detto di Nefti. E stia­mo parlando della dea della maternità e della dea dell’oltretomba».
In Parolacce ha messo come esergo una frase di Sigmund Freud: «Colui che per la prima volta ha lanciato all’avversario una parola ­ingiuriosa in­vece che una freccia è stato il fondato­re della civiltà». Ne è convinto?
«Certo, perché ha spostato sul piano simbolico l’aggressione fisica. Benché anche una parolaccia possa essere assai distruttiva. Del resto si tratta di tabù, di parole vietate in quanto evocano emo­zioni e contenuti potenzialmente peri­colosi per un gruppo sociale. Per questo la nostra civiltà ha stabilito che abbiano dei limiti d’uso di diversa gradazione. Ho condotto un sondaggio online su un campione di 2.600 soggetti ed è risultato che l’espressione va’ a cagare ha un im­patto assai meno dirompente rispetto a figlio di puttana. Le più offensive sono le bestemmie».
Comprensibile.
«Però in Norvegia o in Svezia la blasfe­mia non esiste. Al contrario dell’Italia, che ne è la patria mondiale. Questo per­ché per secoli il concetto di divinità da noi ha coinciso con l’autorità dello Stato Pontificio. Si bestemmiava Dio per ribel­lione contro il Papa Re che ne incarnava visibilmente il Figlio sulla terra. Non a ca­so imprecare, nell’etimologia latina, significa pregare contro. Le parolacce so­no sempre rapportate a concetti delica­tissimi: vita, morte, sesso, malattie, reli­gione, rapporti sociali».
Ma a che servono?
«A esprimere una reazione negativa, a verbalizzare un’emozione forte,spesso al di là delle nostre intenzioni. Mio pa­dre perse per qualche mese la parola a causa di un ictus. Ciononostante quan­do s’arrabbiava gli usciva spontanea di bocca qualche volgarità. Un fatto ben noto ai neurologi: le parole sono control­late dall’emisfero sinistro, le parolacce da quello de­stro, che presiede all’emo­tività. Il danno cerebrale non aveva intaccato il se­condo».
Davvero scegliamo le parolacce in base al lo­ro suono?
«Si chiama fonosimboli­smo, è una teoria linguisti­ca. Il modo di articolare i fonemi imita la realtà. Prenda mucca: le prime due lettere ricordano il ver­so dell’animale, muu. Parolacce come cazzo, puttana, baldracca sono compo­ste da consonanti occlusive. L’aria che giunge dalla trachea dapprima è ostaco­lata da queste lettere che ne aumentano la pressione intraorale, dopodiché vie­ne violentemente espulsa, provocando una sorta di piccola esplosione. Sono le consonanti della forza e della durezza. Disgusto, rifiuto, disprezzo e condanna sono espressi invece con l’espulsione del fiato delle lettere fricative tipo la “f”: fanculo, fanfarone, fetente. Sono i fone­mi del rifiuto, come uffa».
Ma perché le parolacce esercitano su di lei questo fascino?
«Potrei spiegarlo con un episodio del­l’infanzia. Alle elementari una compa­gna di classe mi diede sulla testa l’atlan­te della De Agostini. Avvertii un dolore così forte, con una scossa dal gusto sala­to in bocca, che le urlai: puttana! Non avevo mai pronunciato quella pa­rola prima d’allora. Per me fu uno shock, ci stetti male tutto il giorno. In re­altà, del turpiloquio m’interessa l’aspet­to culturale, che coinvolge a 360 gradi storia della letteratura, linguistica, glot­tologia, psicologia, sociologia, neurolo­gia, giurisprudenza, statistica».
Quanto avrà pesato il Vaffanculo-Day nell’ascesa di Beppe Grillo?
«Lo sdoganamento della parolaccia in politica risale alla notte dei tempi. Beni­to Mussolini non disdegnava la bestem­mia. Suo genero Galeazzo Ciano nel 1939 definì Achille Starace, segretario del partito fascista, “un coglione che fa gi­rare i coglioni” per la sua pedanteria. Bettino Craxi rivolse lo stesso epiteto a Rena­to Altissimo nel 1986. Nel 1984 il mini­stro degli Esteri tedesco, Joschka Fi­scher, disse al capo del Bundestag: “Con rispetto parlando, signor presidente, lei è un buco di culo”. Umberto Bossi nel 1997 bollò l’ex ideologo leghista Gianfranco Miglio come “una scoreggia nel­lo spazio”. Da lì in poi è stata una sparata continua. Le parolacce interpretano gli umori della piazza, si fanno capire da tut­ti. Il filosofo Arthur Schopenhauer nel saggio L’arte di insultare scrive che l’in­sulto è una calunnia abbreviata. Sono però un’arma a doppio taglio: accorcia­no le distanze a detrimento dell’autore­volezza. Per tornare a Grillo, la volgarità è un vettore che ti porta in orbita. Ma quando sei già arrivato nell’empireo, tanto da crederti il primo partito, non puoi più permettertela: ti danneggia».
Lei ha scovato espressioni forti persi­no nella Bibbia.
«Nel Libro di Malachia, fra le minacce ri­volte ai sacerdoti infedeli, c’è anche quella di smerdarli: “Se non mi ascolterete, dice il Signore, io spezzerò il vostro braccio e spanderò sulla vostra faccia escrementi”».
Sparlano pure i medici.
«Un chirurgo e un anestesista hanno re­gistrato di nascosto le imprecazioni dei colleghi in sala operatoria all’ospedale Berkshire di Reading, nel Regno Unito, assegnando punteggi diversi a bestem­mie, riferimenti escrementizi e osceni­tà. I risultati, riguardanti 100 interventi, sono apparsi sul British medical jour­nal. Su 80 ore e mezzo di attività chirurgi­ca, in media si è totalizzato un punto, cioè una parolaccia, ogni 51,4 minuti. In una giornata di lavoro tipica, otto ore, gli ortopedici hanno totalizzato 16,5 punti, pari a una parolaccia ogni 29 minuti; i chirurghi generali 10,6; i ginecologi 10; gli urologi 3,1; gli otorinolaringoiatri 1».
Perché gli ortopedici sono sboccati?
«Un intervento dell’ortopedico dura in media 51,7 minuti, contro i 34,4 dell’otorinolaringoiatra, richiede grande fatica e l’uso di martelli, seghe e trapani, quindi il turpiloquio tende a uniformarsi a quello degli operai».
Non starà dilagando un’epidemia della sin­drome di Tourette, che comporta l’incoercibi­le pulsione a pronunciare volgarità?
«Quella è frutto di un defi­cit neurologico. Tuttavia un qualcosa di contagio­so il turpiloquio ce l’ha. Corriamo il rischio di un’inflazione della parola e del­la parolaccia, l’usura dei concetti e delle relazioni».
In Parolacce rivolge un ringrazia­mento finale alle «molte persone a cui ho rotto le balle». Perché ha scrit­to balle anziché coglioni?
«Mi rivolgevo anche a mia madre Mar­gherita, che pur odiando le parolacce ha avuto il coraggio di leggere il libro in ante­prima. Balle era più bonario da usare con gli amici che mi hanno aiutato. In­somma, spero proprio d’avergli rotto le balle, non i coglioni».