Viviana Mazza, la Lettura (Corriere della Sera) 02/06/2013, 2 giugno 2013
ISL@M DIGITALI. IDENTITA’ MOBILI
«Ci sono 250 milioni di musulmani su Facebook, perché non c’è un’alternativa halal». Annunciando l’anno scorso il lancio di un social network consono ai valori islamici (halal appunto), Abdul-Vakhed Niyazov, direttore di Salamworld, sembrava dare per scontato che i giovani musulmani di tutto il mondo preferiranno senz’altro il suo sito (ribattezzato «il Facebook musulmano») a quelli «tradizionali». Per una questione di «valori».
Salamworld fa parte di un fenomeno in espansione: quello degli strumenti e dei prodotti tecnologici per utenti musulmani. Dalle app «religiose» (sugli orari del digiuno durante il Ramadan, o per consultare il Corano) ai giochi (come Happy Farm, una specie di Farmville senza maiali, e con le contadine in hijab), dai siti di fatwa (le sentenze islamiche) o di incontri matrimoniali (nel rispetto della Sharia) ai cyber imam che rispondono alle domande sul sesso delle ragazze indonesiane. Si tratta di realtà rivolte a una «ummah virtuale», cioè una comunità globale di fedeli online.
Ummah 2.0 contro My isl@m
Mentre alcuni esperti si domandano se (e come) queste tecnologie cambieranno l’islam, altri come Amir Ahmad Nasr, blogger sudanese di 25 anni, autore del saggio autobiografico My Isl@m (in uscita questo mese negli Usa) è contrario all’uso dell’espressione «ummah online». «Vuol dire parlare di una comunità religiosa globale, che in realtà non esiste: non c’è un unico sistema di valori condivisi. Wahhabiti e sciiti si accusano a vicenda d’eresia. Arabi e non arabi sono universi diversi. Dov’è la ummah? Quel che esiste, invece, sono siti e utenti dei social media che a volte sono d’accordo e altre volte si attaccano». Nasr crede in un «Isl@m» personale «senza autorità, dove ognuno parla per se stesso, ed è proprio l’opposto di una ummah dove le autorità religiose cercano di controllare ciò che è giusto e sbagliato».
Altri studiosi — come Dalia Mogahed, ex consulente di Obama per l’islam e direttrice del centro Gallup sul mondo musulmano, e come Bart Barendregt, esperto di Sud-Est asiatico all’Università di Leida in Olanda — usano l’espressione «ummah online» più liberamente, per parlare dei musulmani di ogni età che impiegano i social media. «Cyber ummah», osserva Barendregt, è un’espressione che in Malaysia è usata sin dagli anni 90 dagli intellettuali musulmani. Non significa, sottolinea, che ci sia un unico islam: online si vedono le varie facce, dai sufi ai salafiti. Non significa che i musulmani parlino di religione 24 ore su 24: discutono, come tutti, di cose serie e leggere. Né significa che la «ummah online» rappresenti tutti i musulmani: «Nel Sud povero del mondo, solo uno su quattro o uno su cinque sono connessi».
Social network
Una cosa su cui molti studiosi convengono è che alla «ummah 2.0» non serve un social network dedicato. Mentre Salamworld non ha avuto problemi a trovare pubblicitari interessati, d’altra parte non ha finora convinto gli esperti di islam e di culture digitali: diversi predicono che farà la stessa fine del finlandese Muxlim.com (lanciato nel 2006, fallito nel 2012), Ikhwanbook.com (il facebook dei Fratelli musulmani d’Egitto, lanciato nel 2010 e chiuso poco dopo) e del londinese AlWahy.com («the Muslim social media»), di modesto successo. «Perché mai i musulmani dovrebbero scegliere di comunicare in un luogo isolato, anziché nello spazio dove sta il resto della gente, compresi i loro amici? — commenta Zeynep Tufekci, ricercatrice del Center for Information Technology di Princeton — Anche per fare proselitismo ha più senso muoversi su Facebook o su Twitter». «I musulmani vogliono essere parte della conversazione globale — concorda Dalia Mogahed —. E difatti, benché la "ummah online" parli tante lingue, è in inglese che trovi la più grande varietà di nazionalità e di punti di vista su Facebook e Twitter».
Dialogo e «bolle»
Internet come luogo di scambio di idee su scala globale, oppure come galassia di «bolle» (come quelle de Il filtro di Eli Pariser) in cui passa solo ciò che ci piace? La domanda si applica (non solo ma) anche alla comunità dei musulmani in Rete. Mogahed crede che siano vere entrambe le cose. Da una parte, esiste oggi uno spazio in cui «un musulmano di San Francisco e uno di Singapore possono parlare la stessa lingua spirituale. È l’equivalente virtuale delle conversazioni intellettuali che possono avvenire all’Hajj, il pellegrinaggio alla Mecca. A volte anche i membri di altre fedi possano intervenire in questi discorsi». D’altra parte, la studiosa egiziano-americana che aiutò Obama a scrivere i suoi primi discorsi sull’islam riconosce che c’è una forte polarizzazione ideologica online. Un esempio da manuale è quello di islamici e laici in Egitto: entrambi sono su Twitter e Facebook, ma sono schierati in campi opposti e non fanno che rafforzare i pregiudizi reciproci. Mogahed crede che Internet possa contribuire a questa polarizzazione, ma che ciò che vediamo online sia «più sintomo che causa»: alla base ci sono ragioni offline (profonde differenze ideologiche, abusi, incertezze istituzionali). «E se proprio bisogna individuare un colpevole — aggiunge — allora punterei più il dito contro le tv satellitari che si rivolgono a pubblici omogenei. Ci sono quelle dei salafiti per esempio, o quelle dei copti, con una completa assenza di terreno comune. Rispetto a quei canali, Internet è uno spazio molto più aperto».
Moderni e moderati?
Barendregt crede comunque che «dialogo» sia un termine troppo ambizioso. «La gente tende a mettere online le proprie idee, spesso non c’è un vero scambio, un confronto profondo, non perché Internet sia cattivo, ma perché è così veloce». Conclude però, ottimisticamente, che «quando i salafiti, ad esempio, scoprono la musica gregoriana in Rete forse questo non è "dialogo", ma aumenta la consapevolezza dell’altro». È la stessa idea che porta funzionari dell’amministrazione Usa a intervenire nelle conversazioni nei forum islamici estremisti: sperano di offrire un punto di vista diverso ai «moderati di passaggio».
Le autorità religiose spesso si sentono minacciate dalla Rete, e reagiscono con la censura: dagli editti contro le chat (usate per flirtare) a quelli contro le suonerie basate sui versi del Corano (irrispettose), dai piani per una intranet chiusa e controllata in Iran alla crociata saudita contro Twitter. Ma in parte si stanno rendendo conto che devono abbracciare i nuovi media se non vogliono perdere rilevanza: l’Università di Al Azhar al Cairo ha lanciato siti di fatwa e sermoni su YouTube. Ci sono moschee negli Stati Uniti che hanno trasformato «la preghiera del venerdì in un incontro high-tech: con letture dall’iPad, gente che twitta il sermone, altri che lo criticano online», spiega Nasr: «Il concetto di uno solo che predica e tutti gli altri che stanno ad ascoltare è obsoleto».
La perdita di rilevanza di queste autorità è senz’altro un bene secondo Nasr, ma Mogahed avverte che non è così semplice: «Le moschee sono, per la maggior parte, luoghi moderati. Su Internet è più facile che si impongano idee minoritarie ed estremiste». Né è detto che i giovani istruiti e moderni siano «moderati»: in Malaysia, Barendregt ha visto crescere «una generazione più ortodossa dei genitori, dove le ragazze vanno sì ai concerti delle boy band, ma in spazi segregati per sesso». «A volte si presume che i giovani musulmani saranno meno religiosi, ma non è così — nota Dalia Mogahed —, per lo più sono credenti e cercano dei leader, capaci di comprendere le loro battaglie e aspirazioni. E quando perdono fiducia nelle istituzioni tradizionali, si crea un vuoto, riempito spesso da pseudo-leader religiosi carismatici». Nella dialettica tra i mullah e l’iPad, tra i sermoni in moschea e i tweet sullo smarthphone molte cose non sono scontate.
Viviana Mazza