Davide Frattini, Corriere della Sera 02/06/2013, 2 giugno 2013
SACCHI DI SABBIA E BMW IN FILA AI CAFFE’. LA TRAGICA «NORMALITA’» DI DAMASCO — I
muri massicci ricoperti di marmo e vapore non bastano a smorzare il rimbombo delle esplosioni. L’hammam più antico di Damasco è vuoto nel giorno in cui dovrebbe essere stracolmo, il venerdì della preghiera. I primi tre clienti entrano a metà pomeriggio, il calore del bagno turco spreme fuori il sudore e la paura. Il locale compie mille e ventotto anni, il vecchio Bassam Kebbab lo ha ereditato dalla famiglia e si ostina a tenerlo in funzione anche se ha dovuto ridurre i massaggiatori da venti a quattro. Ogni sera alle 8 sprangano il portoncino in ferro battuto, non ha più senso rimanere aperti fino a mezzanotte, quando per le strade della Città Vecchia girano solo le milizie del regime a ispezionare i vicoli e darsi il cambio ai posti di blocco.
Dalla moschea degli Omayyadi escono una ventina di sostenitori di Bashar Assad, innalzano le foto del presidente: è ritratto in mimetica e occhiali dalle lenti verde scuro, modello aviatore come li portava il padre Hafez. Il gruppo scandisce «La Siria vincerà», è scortato dai militari con il kalashnikov e dagli agenti in borghese che coordinano il mini-corteo attraverso le ricetrasmittenti. Gli stessi uomini con i baffi bruni due anni fa davano la caccia ai manifestanti che chiedevano le riforme e protestavano contro gli abusi del clan al potere: da allora la rivolta è diventata una guerra e la guerra è arrivata nella capitale.
L’ultimo check-point prima del fronte è una fila di sacchi di sabbia appoggiati a una barriera di cemento. Non è stato costruito per controllare chi passa ma per tenere lontani. Invece delle mostrine il soldato tiene appuntata sulla divisa la spilla con la scritta e il cuore rosso «Io amo Bashar». Indica il fumo alla fine del vialone: tra i palazzi di Jobar sono asserragliate le forze dell’opposizione. A pochi metri da qui sul prato dello stadio Abbasyeen stanno accampati i militari della Quarta Divisione, che assieme alla Guardia Repubblicana deve proteggere la capitale e respingere le offensive.
I ribelli premono da nordest, dalla campagna diventata quartieri periferici diventati condomini agganciati a Damasco: Jobar, Zablatani, Al Mleha vengono bersagliati dall’artiglieria. I rivoltosi rispondono con i colpi di mortaio e mirano a Jaramana, una zona rimasta per ora fedele ad Assad dove i drusi sono la maggioranza. I civili restano in mezzo: la famiglia di Abu George ha diviso il giardino di casa in settori sicuri e quadranti a portata dei cecchini.
Da qualche mese le truppe scelte sono affiancate dalle milizie della Forza di difesa nazionale. Sessantamila tra uomini e donne, celebrati dalla propaganda come i guerriglieri che stanno portando la vittoria. La loro caserma sta tra le colline sassose di Dummar, vengono addestrati in quella che è chiamata la Nuova Damasco a difendere la vecchia. L’opposizione accusa il regime di aver regolarizzato e messo in divisa le squadracce paramilitari, di aver legalizzato le atrocità degli shabiha. «La Forza di difesa è volontaria — risponde Wael Mahmoud, leader locale del Baath, il partito di Stato che da quasi mezzo secolo domina il Paese —. Gli stessi padri e figli che hanno organizzato i comitati popolari per pattugliare le vie del quartiere: stiamo provando a trasformarli in soldati».
Il loro comandante ha spiegato da Latakia a Robert Fisk dell’Independent che i miliziani combattono anche in prima linea, al loro intervento vengono attribuite le avanzate di queste settimane: hanno l’ordine di installarsi nelle zone «liberate», a Damasco, Aleppo o nella provincia di Homs. Eppure Mahmoud sembra considerarli poco più che vigili con un mitra: «Passare la giornata ai posti di blocco, fermare le persone, picchiarle se necessario. Non fa per me».
Il regime a Dummar è solido, Mahmoud è alauita come gli Assad, ha due farmacie e il sostegno degli abitanti («di tutte le etnie, qui non facciamo distinzioni, siamo siriani»). La popolarità sbandierata non lo ha protetto da un attentato due mesi fa, quando il negozio di un amico è saltato in aria poco dopo che se ne erano andati. Accusa i fondamentalisti di Jabat al Nusra («hanno cellule dormienti ovunque») e ritiene l’Esercito Siriano Libero responsabile dei rapimenti che nell’ultimo anno spaventano la città: «Sequestri che durano pochi giorni per strappare qualche migliaio di dollari. In questo modo a Dummar sono state portate via cinquanta persone».
I soldati di guardia stanno distesi su un tappeto, il fuoco riscalda il tè e le braci per bruciare il tabacco nel narghilè. Il permesso consegnato dal ministero dell’Informazione ai giornalisti per girare in città non basta a superare la curva: da lì il monte Qassiun domina i quartieri della battaglia, ci sono le postazioni dell’artiglieria, le caserme ed è considerata l’ultima trincea di Assad. Al tramonto le esplosioni non si interrompono, la scarpata scende verso le case bianche di Mazzeh, colpito tre settimane fa da sei proiettili di mortaio sparati all’alba dai ribelli. «Mi hanno distrutto l’auto», racconta Mohammed. Un diploma da manager del turismo, 23 anni, adesso che di turisti non ce ne sono progetta di organizzare feste a bordo piscina. «Quest’estate affitto le ville dei privati o le sale degli alberghi rimasti vuoti». I clienti-invitati sono gli stessi ragazzi e ragazze seduti nei costosi caffè di Malki, le Bmw posteggiate in seconda fila e il terrore lasciato in garage.
In questi venticinque mesi di guerra i quasi due milioni di abitanti della capitale sono cresciuti con l’arrivo dei rifugiati. Le statistiche misurano l’agonia di una nazione: oltre 4 milioni di siriani sono diventati profughi interni, hanno dovuto abbandonare le loro case senza riuscire a scappare al di là di un confine (con la Giordania, la Turchia, il Libano o l’Iraq). Le Nazioni Unite danno da mangiare (razioni di farina e riso) a 2 milioni e mezzo di persone, un decimo della popolazione. La contabilità della morte calcola oltre novantamila vittime.
Khaled Mahjoub riaccende il sigaro, tutto tabacco siriano, una fumata organica, ambientalista come i progetti della sua società che disegna abitazioni ecosostenibili. L’uomo d’affari ha studiato al liceo francese di Damasco con Basil, il fratello maggiore di Assad: l’erede designato dalla dinastia, non fosse morto in un incidente d’auto. Sunnita come la maggioranza, fa parte dell’élite laica, dice di voler «salvare il sistema Siria, il mosaico di religioni e culture». Investe in energie rinnovabili per contrastare «il dominio dei petrodollari, che permettono ai beduini di finanziare l’estremismo wahabita, pagano i fanatici stranieri per cercare di distruggere questo Paese».
Tra gli anni Ottanta e Novanta è venuto spesso in Italia, contratti con le fabbrichette tra Varese e il Lago di Como. Senza ironia paragona il fallimento di molte piccole e medie imprese alla tragedia siriana: «Mi provoca dolore».
Davide Frattini