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 2013  giugno 02 Domenica calendario

ASCOLTO IL TUO CROLLO, CITT


Come erano percepite le opere del patrimonio culturale che nei tre millenni di storia delle grandi civiltà preclassiche dell’Oriente mediterraneo vennero prodotte, spesso per magnifica committenza reale? Che valore assumevano? Di che significato si caricavano? E ancora: quando si verificavano situazioni di contrasto e di scontro, come si configurava l’atteggiamento dei vincitori nei confronti delle opere che erano considerate simboliche dell’illustre passato dei vinti? La violazione della memoria dei vinti si realizzava sempre attraverso la distruzione delle opere? E attraverso quali metodi di annientamento si procedeva perché la violazione della memoria fosse suprema e l’esito delle distruzioni irrevocabile?
Proviamo a rispondere, iniziando col dire che nella mentalità orientale antica l’apprezzamento delle opere si manifestava secondo due concetti lontani dal nostro concetto di bello, che si trovavano in tutte le culture e servivano a definire le qualità positive di un manufatto, sia nell’ambito architettonico che artistico. Erano il concetto di «luminosità, brillantezza, splendore» e quello di «convenienza, adeguatezza, perfezione». In alcuni passi dell’Iliade e dell’Odissea come negli inni omerici, concetti simili emergono nell’apprezzamento delle opere artistiche, mentre solo con le osservazioni di Pitagora attorno al 530 a.C. si affermano concetti nuovi e originali che diverranno il fondamento delle valutazioni prevalenti del mondo classico: queste osservazioni sono incentrate sull’idea che la bellezza di un’opera dipende dalla perfezione della sua struttura, intesa come proporzione delle sue parti e come ordine interno, il suo kosmos.
Nell’atmosfera sacrale che pervadeva ogni aspetto della vita nell’Oriente antico con una naturalezza, una confidenza e una sicurezza che appaiono singolari a un uomo moderno, le più impegnative, articolate e complesse realizzazioni umane, gli stessi centri urbani, non erano in alcun modo percepite come una rottura tra mondo naturale e mondo culturale, bensì piuttosto, al contrario, erano sentite, al tempo stesso, come perfetta creazione divina degli inizi dei tempi, come benedetto luogo ridondante di ogni abbondanza, come felice sede dell’accumularsi di splendide opere.
In un antico, celebre inno al dio supremo sumerico Enlil di Nippur, si ricorda che, quando il grande dio scelse il luogo per il suo santuario, egli anche costruì Nippur «la sua propria città». Nell’Egitto dell’età ramesside (XIII secolo a.C.) in modi non dissimili il primato mitico di Tebe viene esaltato perché la sua fondazione risale ai tempi delle origini. Più tardi, negli ultimi anni dell’VIII secolo a.C., per magnificare la sua rifondazione dell’antichissima Ninive il sovrano d’Assiria Sennacherib così descrive la sua capitale: «Ninive, il centro di culto, la città amata da Ishtar, dove sono tutti i luoghi di incontro degli dèi e delle dee, il basamento eterno, la fondazione imperitura, la cui pianta è stata disegnata nel lontano passato e la cui struttura è stata fatta bella insieme con il firmamento del cielo».
Il rispetto, l’ammirazione, la cura per le opere del passato nel mondo dell’antico Oriente non si limitano però a quelle che erano considerate - come i templi della Babilonia e dell’Assiria - opera degli dèi, ma hanno riguardato soprattutto in Egitto opere famose che, pur giunte fino a noi, avevano già nell’antichità subìto l’oltraggio del tempo.
Ramses II delegò formalmente al suo figlio prediletto Khaemwaset il compito di restaurare i famosi monumenti dell’area di Menfi, con particolare riguardo alle spettacolari necropoli di Giza e di Saqqara, dove sono conservate iscrizioni che ricordano i suoi numerosi interventi per restaurare, conservare e far rivivere aree templari famose dei maggiori faraoni dell’Antico Regno.
Veneratissima era, dunque, sia in Egitto che in Mesopotamia la memoria delle opere dei re scomparsi, e fondamentale era la conservazione della realtà fisica dei monumenti architettonici e artistici che erano l’essenza stessa della tradizione, testimone inoppugnabile della legittimità del potere dei viventi faraoni d’Egitto e sovrani di Mesopotamia. In maniera non molto diversa da quanto accadde nel Rinascimento europeo, un’attenzione acuta e nuova all’arte più antica di oltre un millennio fece sì che, dagli anni dei primi Thutmosidi al tempo di quel magnifico e ambizioso faraone che fu Amenophis III, un rinnovamento dapprima sottile e poi profondo pervadesse l’arte dei signori di Tebe. Non è forse un caso che proprio in quegli anni - come Francesco I e Carlo V non esitarono a trattare alla pari Leonardo e Tiziano - così Amenophis III permise (unico faraone nella storia egiziana) al suo geniale architetto e scultore Amenhotep di avere un tempio funerario proprio vicino al suo stesso immenso santuario funerario nella Tebe occidentale.
Nel mondo orientale antico i luoghi della memoria erano i templi, dimore eterne degli dèi e memoriali caduchi degli uomini che agli dèi votavano statue e stele perché "parlassero" loro (così dicevano, letteralmente, Sumeri, Babilonesi e Assiri) e illustrassero e certificassero le gesta sociali, militari, edilizie dei sovrani.
Ma proprio perché i luoghi della tradizione e della memoria di un popolo, le città e i templi furono spesso oggetto di distruzioni terribili in tutto l’Oriente antico, lungo i tre millenni di storia che separano gli albori dei tempi protostorici dall’avvento dell’Ellenismo dopo le conquiste di Alessandro. E le motivazioni specifiche furono diverse: c’era l’interesse economico legato agli scavi clandestini, c’era l’intento politico dell’umiliazione identitaria, c’era l’odio ideologico verso culture o credenze "altre".
L’interesse economico che alimentava accanite ricerche di tesori potrebbe sembrare qualcosa di tipicamente moderno, e invece era una motivazione assai antica e ha procurato danni gravi in molte aree dell’Oriente antico. Saccheggi di aree funerarie di straordinaria importanza sono attestati in maniera documentata in modo impressionante, già in periodi molto remoti, per quanto concerne la Valle dei Re e la Valle delle Regine nella Tebe occidentale, dove erano le tombe di tutti i faraoni dell’età imperiale egiziana, della XVIII, XIX e XX Dinastia dell’Egitto. I protocolli delle indagini giudiziarie con l’identificazione e la condanna dei responsabili, inerenti i saccheggi di importanti tombe reali di Tebe sigillate non molti decenni prima, sono tramandati da papiri dell’età degli ultimi Ramessidi. Si può ritenere che già a quel tempo quasi tutte le tombe dei faraoni, delle regine e dei principi delle due maggiori dinastie tebane dell’età dell’impero egiziano d’Asia e di Nubia fossero state individuate, violate e saccheggiate in maniera sistematica per depredarne i tesori. Ma è la seconda delle motivazioni (quella dell’intento politico dell’umiliazione identitaria di una parte avversa) che è stata all’origine delle più frequenti, accanite e rovinose distruzioni antiche. La Roma imperiale - nella quale innumerevoli e insigni opere d’arte della cultura greca furono accumulate dai generali vittoriosi della media e tarda Repubblica - fu oggetto in un solo secolo della tarda Antichità di tre spaventosi saccheggi, che portarono alla distruzione e alla rapina di moltissime di queste opere: il sacco dei Goti di Alarico nell’agosto del 410, quello dei Vandali di Genserico nel giugno del 455, e, infine, quello dei Visigoti, Burgundi e Ostrogoti di Ricimero nel luglio del 472.
Anche Babilonia era stata oggetto, tra il XVI e gli inizi del VII secolo a.C., di ripetute conquiste, saccheggi e distruzioni a opera di Hittiti, Cassiti, Elamiti e soprattutto Assiri. Ma nessun saccheggio eguagliò quello che lo spietato Sennacherib inflisse a Babilonia nel 689 a.C.: «Nella mia seconda campagna avanzai rapidamente contro Babilonia, che ero fortemente determinato a conquistare. Come una tempesta piombai su di essa e la sgominai come un uragano. Senza alcuno scampo investii quella città con gallerie e torri d’assedio, le mie mani la presero. Il saccheggio fu completo, dei suoi potenti, piccoli o grandi, nessuno risparmiai.. La città e le sue case, dalle fondazioni ai fastigi, distrussi, devastai, diedi alle fiamme. La cinta muraria interna ed esterna, i templi degli dèi, le torri templari di mattoni e di terra, quanti ve ne erano, io rasi al suolo e gettai nell’Eufrate. Nel mezzo della città aprii canali, allagai il suo suolo con torrenti come un diluvio, fin le strutture delle fondazioni annientai. Feci che la sua distruzione fosse più completa di quella di un’alluvione. Che nei giorni a venire, del luogo stesso della città, dei suoi templi e dei suoi dèi possa essere perduta la memoria. Sommersi la città con l’acqua di un uragano e la resi come una palude».
Poco più di mezzo secolo più tardi, il mondo rimase attonito alla notizia incredibile che anche l’invincibile potenza assira a sua volta stava crollando e le capitali di un impero inattaccabile, da Assur a Ninive stessa, venivano espugnate nel giro di soli due anni. Le distruzioni di Babilonia e di Ninive prima, e poi i vari sacchi di Roma, determinarono la perdita di opere d’arte innumerevoli e importantissime, soprattutto quelle accumulate nei secoli nelle residenze imperiali.
Un’eco impressionante della percezione di quegli eventi drammatici si trova nella celebre invettiva di Isaia:
«Babilonia, perla dei regni, splendore orgoglioso dei Caldei, sarà come Sodoma e Gomorra, sconvolte da Dio. Non sarà abitata mai più né popolata di generazione in generazione! L’Arabo non vi pianterà la sua tenda, né i pastori vi faranno sostare le greggi. Ma vi si stabiliranno gli animali del deserto, i gufi riempiranno le sue case, vi faranno dimora gli struzzi, vi danzeranno i satiri. Ululeranno le iene nei suoi palazzi, gli sciacalli nelle sue lussuose residenze. La sua ora si avvicina, i suoi giorni non saranno prolungati!».





Venerdì scorso, Paolo Matthiae ha tenuto una conferenza all’Accademia dei Lincei di Roma sul tema «Memoria venerata e memoria violata. L’arte del passato nelle civiltà dell’Oriente antico» dedicata alle modalità e alle motivazioni che spinsero il mondo antico a distruggere i capolavori dell’arte. L’articolo qui pubblicato è la sintesi dell’intervento.