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 2013  giugno 02 Domenica calendario

REIMPARIAMO AD ARRANGIARCI

Sapete quale sarà il nostro destino? Diventare un paese povero che conserva le abitudini di quando era ricco. L’ho capito leggendo una lettera apparsa su «Repubblica» giovedì. L’aveva scritta una signora di Milano, Marianna Storari, che raccontava di essere alle prese con un problema difficile da risolvere. Quello di riparare un’asola della sua blusa. E la confessione della signora merita di essere conosciuta per intero.
«Sto consultando Internet per scoprire come si cuce un’asola. Fino a cinque minuti fa non sapevo che questa fessura dentro la quale faccio scivolare il bottone della mia blusa si chiamasse proprio asola. E ora sono qui a cercare un rimedio sul web per scoprire come ripararla con il punto occhiello, visto che si è slabbrata. Le labbra, a dire il vero, me le mordo io. Se penso che mia nonna era una sarta e io non mi sono fatta insegnare nulla, proprio nulla, neanche come si aggiusta un’asola. Eppure lei ci ha provato tante volte a mettermi un ago in mano. Che spreco di tradizione».
Ho sempre pensato che le lettere pubblicate dai giornali siano una testimonianza del tempo presente ben più chiara degli articoli scritti da noi giornalisti. I grandi direttori mostravano un’attenzione quasi maniacale per la corrispondenza dei lettori. Il mio primo maestro professionale, Giulio De Benedetti, il dominus assoluto della «Stampa», aveva creato una rubrica apposita chiamata «Specchio dei tempi». Ogni sera la prima bozza che voleva controllare era quella.
Lo considerava lo spazio più importante del giornale. Molto spesso era lui a scegliere i messaggi da pubblicare. E il successo strepitoso dello «Specchio» gli confermava di aver visto giusto. «Libero» fa bene a destinare due pagine alle lettere. Maurizio Belpietro non me ne vorrà se gli rivelo che le leggo prima ancora di passare al suo editoriale. Se un giorno «Libero» deciderà di raccogliere in un libro una selezione dei pareri espressi dai suoi lettori nell’arco di un anno, avremo tra le mani una testimonianza sorprendente dell’epoca che stiamo vivendo.
Prezzo da pagare
Che cosa mi suggerisce la lettera della signora Marianna? Una constatazione melanconica che va molto al di là della sua incertezza nel riparare un’asola slabbrata. Provo a spiegarla nel modo seguente. Quel che accade in Italia in questo tetro 2013 ci conferma che in un futuro già cominciato, e destinato a durare parecchio, ci troveremo a vivere momenti molto duri. Più o meno uguali a quelli che i nostri genitori e i nostri nonni hanno dovuto fronteggiare in altre epoche, a cominciare dal primo dopoguerra, ossia negli anni a partire dal 1945.
Sono fiducioso che sapremo cavarcela. Ma ci riusciremo pagando un prezzo molto alto. Poiché non possediamo due qualità che le generazioni precedenti avevano. La prima è la mentalità o lo stato d’animo giusto per non lasciarsi sopraffare dalle difficoltà. La seconda è la capacità di risolvere da soli i problemi quotidiani che la vita ci presenta giorno per giorno, in casa e fuori.
Nel 1945 avevo dieci anni e ricordo bene l’atteggiamento di mio padre e di mia madre a proposito del nostro stile di vita. Non eravamo una famiglia povera. Papà lavorava da guardafili del telegrafo, era un operaio specializzato delle Poste. Mamma aveva un negozio da modista e da pellicciaia. Ma senza essere poveri non si navigava nel lusso. Una parola sconosciuta come l’asola per la signora Marianna.
La nostra casa era senza riscaldamento, un brutto guaio in una città del nord dove gli inverni erano lunghi e gelidi. Papà non ha mai posseduto una motocicletta, mentre io non ho mai avuto neppure un motorino. Di automobili, anche utilitarie, meglio non parlare. Infine i miei genitori non sono mai andati in vacanza, per loro niente mare, montagna o campagna. Quando il negozio di mamma chiudeva per i pochi giorni del Ferragosto, l’unico svago era di andare a bagnarsi nel Po che allora aveva un’acqua tanto pulita da poterla bere.
Il nostro atteggiamento mentale era di non fare il passo più lungo della gamba e di risparmiare il più possibile, nell’eventualità che si ripresentassero i tempi duri della guerra. Contrarre un debito era un peccato mortale. Se ritornassi il ragazzo di allora, non avrei in tasca nessun telefonino, viaggerei soltanto in bicicletta, non disporrei di nessuno dei marchingegni elettronici che oggi sembrano indispensabili. E passerei le vacanze ai giardini pubblici con gli amici, a discutere di libri e di politica. Senza trascurare le ragazze che vedevamo passare in bici e con le gambe al vento, fingendo di non accorgersi che le mangiavamo con gli occhi. Conosco l’obiezione che tanti potrebbero rivolgermi. Caro signore, oggi siamo nel 2013 e non nel 1953, quando lei aveva diciotto anni. Prendere come modello la mentalità e i comportamenti di quel tempo è assurdo. Mi dichiaro d’accordo. Però aggiungo: siamo sicuri che la crisi globale non ci obblighi a rivedere il nostro stile di vita? E non ci costringa a cambiare la scala di valori che l’ha sostenuto per decenni?
Questa certezza non esiste. Lo conferma quel che sta già accadendo nella società italiana. Ci troviamo in un frangente rischioso. E per di più non disponiamo di un’arma che i nostri vecchi avevano: la capacità di risolvere da soli i tanti problemi pratici che la vita ci presenta.
Formiche e cicale
Mia madre sapeva fare di tutto. E non soltanto le asole, che per lei erano un lavoretto da nulla. Imparato quando aveva appena dieci anni ed era stata messa a lavorare in una modisteria. Da “piccinina” come si diceva allora, addestrata a cucire con l’ago e con la macchina Singer. Era una signora indaffarata che non si perdeva mai d’animo. Si alzava all’alba, preparava la colazione per il papà, mia sorella eme, metteva a cuocere il pranzo di mezzogiorno, poi correva ad aprire la modisteria.
Lì non si sentiva soltanto la padrona, per altro molto esigente, ma la prima delle lavoranti. Le comandava a bacchetta. Mostrava alle ragazze inesperte come si confezionava quell’abito, quella pelliccia, quel cappello per signora. Rimediava ai loro errori e le obbligava a imitarla. Era anche una super casalinga. Il letto doveva essere fatto così e non cosà. Il vestiario andava curato al massimo. A me diceva: Giampa, le scarpe che non usi vanno lucidate lo stesso tutti i giorni e tenute con le forme di legno all’interno, dureranno più a lungo.
Papà sapeva fare di tutto. L’elettricista, l’idraulico, il falegname, l’aggiustatore di qualunque congegno meccanico, una bicicletta male in arnese, una serratura guasta, un lucchetto rotto. Era bravo anche come piastrellista. Un giorno decise di piastrellare la cucina. La mamma era scettica sull’esito dell’impresa. Poi restò sbalordita. Prima di andare in pensione, decise di imparare il mestiere di mia madre: il pellicciaio. E si dimostrò bravissimo.
Confesso di non aver imparato niente dalla manualità di mio padre. Non so affrontare nessuno dei lavori che lui risolveva a occhi chiusi. In compenso non ho mai creduto di rimediare alle mie incapacità pratiche aprendo una pagina su Facebook o passando le ore a twittare. Considero il computer uno strumento che mi aiuta a scrivere, e non un giocattolo per adulti che non sanno come trascorrere la giornata.
Il problema dell’asola da riparare ci svela una questione ben più grande e terribile. Noi italiani siamo un popolo che oggi si risveglia da un’illusione e scopre di non saper fare quasi nulla. Ha paura di ritornare povero, però non ha la forza di reagire mostrandosi coraggioso, paziente, duttile. Pronto ad accettare i lavori disponibili. Siamomilioni di formiche che pretendono di vivere ancora da cicale. È un brutto modo per cimentarsi con successo in una prova che non risparmierà nessuno