Piero Ostellino, Corriere della Sera 2/6/2013, 2 giugno 2013
Per settimane, si è discusso, a livello politico e mediatico, se il bilancio dello Stato potesse permettersi l’eliminazione dell’Imu — che avrebbe comportato un mancato incasso per l’erario di 4 miliardi di euro — e si continua a parlare della Casta politica e della riduzione dei suoi costi, che incidono in maniera insignificante sul bilancio statale, a fronte di un costo della Pubblica amministrazione non lontano dai mille miliardi l’anno, che grava sulla fiscalità generale
Per settimane, si è discusso, a livello politico e mediatico, se il bilancio dello Stato potesse permettersi l’eliminazione dell’Imu — che avrebbe comportato un mancato incasso per l’erario di 4 miliardi di euro — e si continua a parlare della Casta politica e della riduzione dei suoi costi, che incidono in maniera insignificante sul bilancio statale, a fronte di un costo della Pubblica amministrazione non lontano dai mille miliardi l’anno, che grava sulla fiscalità generale. Dciamola, allora, tutta: ciò che rallenta lo sviluppo dell’iniziativa privata, non solo economica, impedisce una maggiore diffusione del benessere e la crescita non è, dunque, riconducibile ai temi del dibattito politico, ma la natura dell’Ordinamento nato nel 1948 — «una rivoluzione promessa in cambio di una rivoluzione mancata» (Piero Calamandrei) — o, se si vuole, del sistema politico e burocratico-amministrativo come si sono progressivamente strutturati e di cui nessuno parla. La Casta è, così, la più grande mistificazione che si potesse inventare per distogliere il cittadino dai problemi del Paese e dai suoi stessi interessi reali e mantenere immutato un sistema del quale troppi, compresi certi potentati privati collusi con lo Stato, godono perché possa essere facilmente riformato. La Casta è il falso obiettivo di una guerra che andrebbe combattuta contro altre cause della nostra endemica crisi. Il potere tecnocratico, di matrice europea, si coniuga, da noi, con la tradizionale discrezionalità di cui godono i poteri pubblici, con un mercato nel quale i consumatori non contano e i produttori sono legittimati formalmente dal potere pubblico e sostanzialmente dalle corporazioni. Le cosiddette privatizzazioni dei servizi pubblici nazionali e locali hanno portato paradossalmente ad una contrazione dello spazio per gli operatori privati, ad una riduzione drastica dei servizi essenziali, ad un aumento dei prezzi senza alcuna diminuzione dei costi a carico dei contribuenti; soprattutto, ad una maggiore ingerenza della politica nelle nomine degli amministratori delle società (nazionali e locali) privatizzate, rappresentati da monopolisti e/o da operatori collegati tra loro da «cartelli» più o meno occulti. Una situazione, per molti aspetti, analoga si è verificata con le riforme in senso «federalista» dell’amministrazione pubblica; invece di una maggiore partecipazione «dal basso» dei cittadini, si sono moltiplicati i livelli di gestione del potere «dall’alto» (a livello locale), con un aumento delle ingerenze politiche nell’amministrazione, e dei relativi costi. Il risultato — il potere pubblico, per la riduzione delle risorse dovuta alla crisi economica che ha colpito i Paesi più deboli dell’Occidente (tra cui l’Italia), è impegnato nella ricerca di una redistribuzione delle sempre minori opportunità di lavoro e di guadagno a favore delle corporazioni in competizione — rivela che questa è la vera ragione delle disfunzioni di cui soffre il sistema. Esse risalgono a quando Fanfani si pose il problema di come sostenere e finanziare un partito di massa quale era la Dc di fronte al Pci, finanziato dall’Unione Sovietica. Da allora, il settore pubblico invade la società civile di personale politico e soffoca gli spazi riservati all’impresa e alla crescita. La privatizzazione formale degli enti nazionali di gestione, ad onta di tutti i tagli, continua a produrre deficit e una qualità scadente dei servizi. È il caso delle società comunali di gestione dei servizi di cui non si ha neppure il numero preciso, variabile come è da sedicimila a cinquantamila. Con una simulazione di otto persone per ogni consiglio di amministrazione si arriva ad oltre quattrocentomila i politici, senza contare i funzionari e i consulenti ad essi vicini, che ne risultano impegnati. Una singolare interpretazione esonera, inoltre, la Corte dei conti dal sindacare queste società — in contrasto con gli articoli 100 e 103 della Costituzione, che la abilita al controllo sulla gestione finanziaria degli enti cui lo Stato contribuisce, in via ordinaria — così che ogni sindaco non ha alcun obbligo di comunicare la costituzione di una «nuova» società, dall’ex municipalizzata, a nessun ente centrale o periferico; e il passivo si scarica sulle bollette delle utenze o su un (a volte truffaldino) aumento di capitale. Ipotizzando una perdita di centomila euro per cinquantamila società, avremmo un dato a molte cifre; altro che i quattro miliardi di euro per l’Imu sulla prima e unica casa la cui soppressione molti hanno giudicato demagogica perché i Comuni sarebbero stati costretti a tagliare ulteriormente i servizi! Probabilmente non c’è rimedio, perché tutta la struttura del mercato italiano si basa su una redistribuzione di rendite che lascia al libero mercato bar e panettieri: già Manzoni l’aveva capito, descrivendo la crisi causata dalla peste nel Seicento: «per i panettieri le gride contano». Il sistema è di tali dimensioni che non offre possibilità di ritorno: in nessun Paese al mondo c’è una tale commistione tra politica e affari tra pubblico e privato. Se la Corte dei conti denunciasse il danno erariale prodotto dai funzionari pubblici, in particolare dai sindaci, si disporrebbe di un elemento per venirne a capo; ma tutto il sistema porta all’insindacabilità e alla inconoscibilità della situazione. In una grande città del Nord una metropolitana di 2,5 km e mezzo, realizzata in venti anni, è costata più di settecento milioni di euro senza che qualcuno abbia battuto ciglio! Tra i tanti effetti negativi della legislazione c’è, infatti, anche quello di aver deresponsabilizzato i sindaci, che nelle vecchie aziende, se non altro, discutevano con i propri dirigenti comunali di disservizi e di come rimediare ai possibili deficit. Di difetti e carenze del sistema parlano Giovanni Cofrancesco e Fabrizio Borasi, in una ricerca decennale, ora pubblicata (Il potere tecnocratico, ed. Giappichelli). Basterebbe leggerla. Cofrancesco e Borasi sottolineano, in particolare, che le privatizzazioni hanno fatto saltare quei controlli ereditati dallo Stato unitario e centralista. Che, ancorché in deficit, esercitava la sua sovranità sulle aziende municipalizzate andando incontro alle fasce deboli della popolazione, e faceva, comunque, sopravvivere un mercato per le fasce medio alte. L’indebolimento del ceto medio ha prodotto un ulteriore perverso meccanismo: ha fatto fallire la domanda medio-alta di un mercato più o meno libero. Forse non è un caso che nei Paesi anglosassoni non esista la distinzione tra privatizzazione e liberalizzazione; distinzione tutta italiana, che la normativa dell’Ue non ha scalfito con le sue regole, ma addirittura aggravato dalle molte eccezioni alle regole stesse, prima fra tutte la nozione di «aiuto di Stato», interpretabile, come più gli conviene, a discrezione da «chi può farlo». postellino@corriere.it