Carlo Vulpio, la Lettura (Corriere della Sera) 02/06/2013, 2 giugno 2013
L’EROE DEL TOUR UCCISO IN UN CANALE
Quel giornalista, Albert Londres, che girava il mondo e aveva scritto brillanti reportage dalle colonie penali della Guyana francese — l’Isola del Diavolo e la prigione della Caienna — e che di ciclismo non sapeva nulla, del Tour de France capì subito tutto. Londres non aveva mai seguito quella corsa, all’epoca cinquemila chilometri lungo il perimetro esagonale della Francia, né alcun’altra competizione ciclistica, eppure, raccontando il Tour del 1924, concepì due immagini fulminanti, che sarebbero rimaste impresse per sempre nella mente di tutti. Definì i corridori che partecipavano al giro di Francia «i forzati della strada» e pubblicò un libro che già dal titolo, Tour de France, Tour de Souffrance, dava perfettamente l’idea dell’impresa.
La lunghezza delle tappe, la severità dei percorsi, l’impervietà delle salite sembravano studiate da un maestro di sadismo e quel sadico venne individuato proprio nell’ideatore del Tour, Henri Desgrange, che per questo motivo si guadagnò gli appellativi di «omino sanguinario», «massacratore di atleti», «aguzzino di forzati», anche se era soltanto l’ingegnoso giornalista che fondò «L’Équipe», stampato su carta gialla, da cui il colore della maglia del campione, e si inventò la Grande Boucle, come ai francesi piacque subito ribattezzare il Tour de France.
Il Tour di quest’anno sarà il numero 100 (il primo si disputò nel 1903, ma le due guerre mondiali ne hanno causato la sospensione per undici anni) e basta questo per farne un tour speciale. Ma anche quello del 1924 fu speciale. Perché in quel Tour nacque il mito di Ottavio Bottecchia, che Desgrange e Londres ammirarono soffrire dall’inizio alla fine — proprio come si aspettavano — e che dall’inizio alla fine indossò ininterrottamente la maglia gialla, un record che venne eguagliato soltanto da Jacques Anquetil nel 1961. Con la differenza che Anquetil era un normanno e gareggiò quarant’anni dopo, mentre Bottecchia era un italianuzzo sgraziato che aveva sì combattuto al fronte, tra gli «esploratori d’assalto» (in bicicletta, si spingevano fin sotto le linee nemiche), ma non aveva il physique du rôle del numero uno — più o meno ciò che è stato Pietro Mennea per l’atletica leggera — e che gareggiava, lo diceva lui, «non per la gloria, o le donne, o il successo, ma solo per i schei».
Bottecchia, che si chiamava Ottavio perché era l’ottavo figlio di un mugnaio e di una casalinga della provincia di Treviso, non si vergognava di ammettere che correva per soldi (al contrario, lo rivendicava) per la semplice ragione che non si vergognava di dire che aveva fame, che aveva sempre avuto fame, ancor prima di nascere, e aveva fame non per metafora, ma perché glielo ricordavano tutti i giorni quei crampi allo stomaco che temeva molto di più dei crampi alle gambe.
Bottecchia era arrivato al Tour l’anno precedente, nel 1923, ingaggiato dal mostro sacro del ciclismo francese, Henri Pellissier, che lo aveva notato al Giro d’Italia, in cui si classificò quinto, pur facendo parte di quella schiera di corridori mal pagati e privi di una squadra (e quindi di assistenza durante le gare) che per questo venivano definiti «isolati».
Pellissier ne fece il suo gregario di lusso e vinse il Tour, ma la vera sorpresa fu Bottecchia, che si classificò secondo. L’anno successivo, nel 1924, Bottecchia «prende la rincorsa» correndo la Milano-Sanremo, in cui si classifica quinto (dietro Costante Girardengo, che si piazza terzo) e poi va a vincere il Tour, stabilisce il record e, per la gioia del «sadico» Desgrange, vince il Tour anche nel 1925.
Il muratore italiano Bottecchia era arrivato tardi sul grande palcoscenico del ciclismo mondiale. Quando vinse il Tour del record aveva trent’anni, ma era tra i pochi a saper trasformare la bicicletta nell’«anticavallo» partorito dalla fantasia di Gianni Brera e a farne, soprattutto in salita, la sua arma migliore. In salita, Bottecchia era fortissimo, imbattibile. E questo faceva impazzire i francesi, che lo «naturalizzarono» a modo loro, chiamandolo Botescià. Tutto il contrario dei «francesi che ci rispettano/ che le balle ancora gli girano» cantati da Paolo Conte per le vittorie di Gino Bartali al Tour del 1938 e del 1948.
Ma se il Tour del 1924 era una Caienna, l’Italia era anche peggio. In quell’anno fu sequestrato e assassinato il deputato socialista Giacomo Matteotti, che in Parlamento, dopo le elezioni tenutesi nel mese di aprile con la famigerata «legge Acerbo» (il Porcellum di allora, che regalava uno spropositato premio di maggioranza), pronunciò un duro discorso contro il regime fascista. Il 10 giugno successivo Matteotti sparì dalla circolazione (sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 agosto), il 22 giugno cominciò il Tour de France, con la vittoria di Bottecchia nella prima tappa, Parigi-Le Havre, e il 27 l’opposizione, per protesta contro il governo, si astenne dai lavori parlamentari con la «secessione dell’Aventino».
I tre avvenimenti non sono estranei l’uno all’altro, poiché in quel momento il regime cercava disperatamente «eroi» italiani (nello sport e non solo) di cui fregiarsi sulla scena internazionale e dopo il sequestro Matteotti ne aveva ancor più bisogno. Forse non fu un caso, quindi, che venisse lanciata una sottoscrizione nazionale per far partecipare al Tour la medaglia di bronzo al valor militare Ottavio Bottecchia e che si cercasse di «iscrivere d’ufficio» il campione tra i simpatizzanti fascisti. Il povero Bottecchia però, che nel frattempo era diventato ricco e anche un po’ antipatico e aveva aperto una fabbrica di biciclette che porta il suo nome, fascista non era. Così come non era antifascista. Ma la sua fama lo aveva portato al centro delle critiche degli uni e degli altri, oltre che delle normali invidie dei suoi colleghi corridori e dei suoi compaesani. C’è persino chi insinua che vinca in Francia e deluda in Italia perché lì è più facile aiutarsi con le «bombe», che oggi chiamiamo doping, una pratica che ha segnato anche di recente il Tour (le sette vittorie consecutive ottenute da Lance Armstrong dal 1999 al 2005 sono state tutte cancellate), ma Ottavio Bottecchia smentisce: «Io non ho mai usato prodotti eccitanti o stupefacenti».
Non basta. Il mito si crea per poterlo abbattere e questo sembra il momento giusto anche per l’ex muratore trevigiano. Appena Bottecchia comincia a non vincere più — accade già nel 1926, subito dopo il biennio d’oro di Francia, quando si piazza quarto al Giro di Lombardia — capisce che deve abdicare in favore di chi ha una forza agonistica maggiore della sua. Il successore c’è, si chiama Alfredo Binda, ha otto anni di meno e sarà un’altra stella del ciclismo.
Nel 1927, a 33 anni, Bottecchia è già un appagato ex, ma non rinuncia alla bicicletta. Si allena sulle strade di casa sua con il fratello Giovanni. Si gode un po’ la vita. Ma il 27 aprile il fratello viene investito da un’auto e muore. Il conducente è il gerarca fascista locale Franco Martinotti, che a titolo di risarcimento offre alla famiglia della vittima centomila lire. Una somma che Ottavio rifiuta. Il 3 giugno tocca a Ottavio. Lo trovano riverso in un canale tra Peonis e Trasaghis, qualcuno lo ha colpito alla testa e lo ha lasciato lì, portando via la bicicletta per inscenare un furto. Bottecchia morirà dodici giorni dopo nell’ospedale di Gemona del Friuli e nessuno, nonostante i numerosi libri scritti su di lui, riuscirà mai a svelare il movente e l’autore del delitto.
Vent’anni dopo, un contadino dirà di aver ucciso il corridore a bastonate perché lo aveva sorpreso a rubare dell’uva dal suo vigneto. Ma a giugno uva matura non ce n’è. Successivamente, dagli Stati Uniti spunterà un altro «reo confesso» che, accoltellato a morte in seguito a un’aggressione, si attribuirà l’assassinio «su ordinazione» dei due fratelli Bottecchia. Il caso viene chiuso, il fascicolo sparisce. La corsa di Ottavio finisce in malo modo. Ma nel 2015 Botescià rivivrà. Gli sarà dedicata una delle tappe del Tour de France che si correranno in Italia, la Venezia-Conegliano, vicino a casa sua. Era ora.
Carlo Vulpio