
Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
L’Egitto è di nuovo in piazza e chiede a gran voce le dimissioni del presidente Morsi, regolarmente eletto appena un anno fa (l’anniversario era ieri). Le manifestazioni sono cominciate mercoledì, ma ieri hanno raggiunto l’apice: otto cortei hanno attraversato il Cairo, gonfiandosi mano a mano che la calura si dissolveva nella notte. Poco prima delle 21, è stata assaltata e data alle fiamme la sede del partito dei Fratelli Musulmani, a cui appartiene anche Morsi e che guida il Paese dalla caduta di Mubarak. I manifestanti sono centinaia di migliaia, innalzano striscioni che pretendono la fine del regime e agitano cartellini rossi, metafora trasferita dal calcio per gridare al governo: «Sei espulso!». Morsi ha dato un’intervista al Guardian in cui dice che non si dimetterà mai, che lui e il suo governo hanno vinto le prime e per ora uniche elezioni regolari che si sono svolte nel Paese, che i ribelli sono prezzolati da chi vuole il ritorno a un regime simile a quello di Mubarak, che cedere significherebbe consegnare l’Egitto al caos, dato che farsi sconfiggere dalla piazza aprirebbe la porta a ogni possibile gesto illegale.
• È vero? La nuova primavera egiziana è fomentata dai vecchi sostenitori del dittatore-presidente Mubarak? A proposito, che fine ha fatto Mubarak?
Mubarak è vivo, è stato condannato all’ergastolo, ma la Cassazione dice che il processo è da rifare. Dietro i ribelli di questa tornata c’è un po’ di tutto: un nucleo di nostalgici di Nasser (il dittatore egiziano degli anni Cinquanta e Sessanta) e intorno a loro liberali, socialisti, marxisti, laici e anche islamisti più radicali dei moderati Fratelli Musulmani che stanno al governo, cioè i terribili salafiti. Costoro non hanno un programma e neanche un leader e se prendessero il potere non saprebbero bene che fare, anzi si spaccherebbero nella miriade di correnti che li compongono. Ma per ora stanno in piazza, hanno pagato la rivolta con otto morti e molte centinaia di feriti e arrestati, uno dei morti è un americano, fatto che ha costretto l’ambasciata Usa a rimpatriare in fretta una cinquantina di dipendenti «non essenziali», Obama dal Sudafrica, manifestando preoccupazione, ha invitato i suoi compatrioti a non partire per l’Egitto. Oltre a predicare il ritorno del defunto Nasser, i ribelli sono agitati dal solito antiamericanismo di maniera..
• Ma alla fine che vogliono?
Vogliono che Morsi se ne vada e che con Morsi se ne vadano i Fratelli Musulmani. Ma più di questo, non saprei dire.
• Che cosa ha scatenato però quest’iradiddio? Perché con la primavera di due anni fa, la fine comunque della dittatura, elezioni regolari, l’ascesa di Morsi il Paese sembrava aver imboccato la via di una normalizzazione.
Sarebbe forse stato così, se Morsi e i Fratelli avessero mostrato un minimo di capacità di governo. Ma metà degli egiziani vive con due dollari al giorno: non c’è più benzina, non ci sono soldi per la manutenzione delle centrali elettriche e case e fabbriche sono tormentate da continui black-out, i bei soldi che venivano portati dai turisti non ci sono più, perché nessuno va più in vacanza in Egitto. E senza la preziosa valuta straniera dei turisti, non si possono importare petrolio, gas, grano, farina. Questi generi di prima necessità sono quasi regalati alla gente con il sistema delle sovvenzioni, ma le casse sono vuote: se entro la fine dell’anno non si trovano 20 miliardi, c’è il fallimento. Il debito pubblico è passato da 33 a 45 miliardi di dollari, le riserve valutarie sono a 16 miliardi e si esauriranno in pochi mesi.
• Non ci sono le istituzioni internazionali pronte a soccorrere? Non so, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario, la stessa Unione Europea?
È in corso una trattativa col Fondo Monetario per un prestito da 4,8 miliardi di dollari. Il Fondo, come sempre, chiede garanzie, e prima di tutto che finisca il sistema dei sussidi. La cosa pare agli egiziani un assurdo: come mai Libia, Turchia, Arabia Saudita, Qatar hanno prestato il loro denaro senza porre condizioni e il Fmi invece vuole garanzie?
• Non sarà anche questione di tassi d’interesse?
Forse. I Paesi fratelli vogliono il 3,5% (il Qatar il 3), il Fondo s’accontenterebbe dell’1,5. Ma il governo e il popolo di quel Paese non capiscono le garanzie. Così l’Egitto è a secco, benché anche gli europei, in presenza di garanzie, sarebbero pronti a mettere mano al portafogli e tirar fuori altri cinque miliardi. La caduta di Morsi non cambierebbe troppo i termini del problema, a parte far tramontare un regime che ha base religiosa e, magari, farne ascendere uno laico. In ogni caso è difficile trattare con un Paese in cui la metà degli abitanti (90 milioni) non ha mai messo piede in una banca, non sa cosa sia un assegno, nè ha mai sentito parlare di carta di credito.
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