Sergio Rizzo, Corriere Economia 1/7/2013, 1 luglio 2013
L’ETERNO SOPRAVVIVERE DELLE PARTECIPAZIONI STATALI
C’era una volta il ministero delle Partecipazioni statali. Spazzato via vent’anni fa dal vento delle privatizzazioni, ne è rimasto un piccolo germe, annidato dal 2001 a via XX settembre sotto la più moderna forma di società per azioni. L’hanno chiamata Sicot, che sta per Sistemi di consulenza per il Tesoro: ha 16 dipendenti, dei quali due dirigenti e 7 quadri direttivi. E ci costa, scopriamo leggendo una relazione della Corte dei conti appena pubblicata, due milioni 25 mila euro l’anno. È questo, infatti, il corrispettivo che il ministero dell’Economia si è impegnato a versare a questa piccola società interamente di sua proprietà, in base a una convenzione quinquennale che scadrà, udite udite, non prima del 31 dicembre 2016. Per fare cosa?
Le «linee guida» dell’attività sono così riassunte nel referto: «gestione del sistema informativo partecipazioni operante su rete internet, costituito dalla banca dati finalizzata al monitoraggio degli assetti azionari e degli organi di amministrazione e di controllo delle società direttamente partecipate dal ministero economia e finanze; assistenza nella gestione e valorizzazione delle partecipazioni; assistenza nella realizzazione dei processi di valorizzazione e di privatizzazione, nonché assistenza nella valorizzazione dell’attivo e del patrimonio pubblico per i profili inerenti la gestione delle partecipazioni detenute dal Ministero economia e finanze».
Dopo aver letto tutto ciò, una domanda sorge spontanea: per svolgere questi compiti non bastava il Dipartimento del Tesoro? Era così indispensabile costituire una società apposita, con tanto di consiglio di amministrazione e collegio sindacale, pratiche burocratiche e tutti i costi che ne conseguono? Ci sono i dipendenti (un milione e mezzo di euro), l’affitto dei locali (81 mila euro nel 2011), le spese legali, fiscali e notarili (37 mila), le assicurazioni (46 mila), le utenze (19 mila), il compenso del presidente del collegio sindacale esterno (9 mila euro). Nonché quello del presidente della società, sempre proveniente dall’esterno: il suo nome è Gianfranco Graziadei, noto avvocato torinese che ricopre l’incarico di capo dei revisori della Treccani ed è il rappresentante degli obbligazionisti della vecchia Alitalia. Nominato nel 2010 dal governo di Silvio Berlusconi, è stato riconfermato qualche settimana fa dall’esecutivo di Enrico Letta. Secondo quanto riportato dalla Corte dei conti per questo incarico gli spetta una retribuzione di 31.200 euro. Briciole, certamente.
Ma andando avanti nella lettura del documento dei giudici contabili, di briciole ne saltano fuori altre, e non così piccole. Si scopre, per esempio, che ogni anno la Sicot mette da parte un tesoretto, rappresentato dagli utili che si sommano agli utili. Ecco perché la società del Tesoro si ritrovava in bilancio alla fine del 2011 disponibilità finanziarie per 3 milioni 297 mila euro. Dei quali ben un milione 710 mila depositati su un conto corrente della Banca Popolare di Milano e un milione 587 mila investiti in Certificati di credito del Tesoro 2006-2013 a tasso variabile. Investimento particolarmente oculato, se è vero che la crisi finanziaria del 2011 e il conseguente rialzo dei tassi ne ha moltiplicato il rendimento, raddoppiando i proventi finanziari e spingendo l’utile netto della Sicot a 125 mila euro.
Riassumiamo. Per monitorare le proprie partecipazioni nelle società statali, compito che secondo logica dovrebbero poter svolgere agevolmente gli uffici ministeriali, il dicastero dell’Economia ha costituito 12 anni fa un’altra società che gli costa più di due milioni l’anno. Parte di quei soldi, che sono troppi, finiscono in banca e in titoli di Stato. L’unico suggerimento che si può trarre da questa storia: se fosse proprio questo il punto di partenza della famosa spending review, cominciando dalle briciole?