Jamie Shreeve, National Geographic 1/7/2013, 1 luglio 2013
LO STRANO CASO DEL TERZO HOMO
Sui monti Altaj della Siberia meridionale, a circa 350 chilometri dal confine con la Mongolia, la Cina e il Kazakistan, nascosta sotto una parete di roccia che si erge per 30 metri su un piccolo fiume chiamato Anuj, c’è una grotta chiamata Denisova. Il nome deriva da quello di un eremita, Denis, che pare ci abbia vissuto nel Settecento.
Ben prima di lui, i pastori neolitici e poi turchi vi si rifugiavano con le loro greggi per superare indenni gli inverni siberiani. È questa la ragione per cui gli studiosi che oggi lavorano dentro la grotta, tra pareti di roccia deturpate da graffiti recenti, devono scavare spessi strati di escrementi di capra per raggiungere i depositi che li interessano. La camera principale della grotta, però, ha un alto soffitto a volta con un foro vicino alla sommità da cui entra un fascio di luce che crea un’atmosfera quasi sacrale.
In fondo alla grotta si apre una piccola camera laterale. È qui che un giorno di luglio del 2008 il giovane ricercatore russo Alexander Tsybankov, scavando nei depositi che si pensava risalissero a un periodo compreso tra i 30 mila e i 50 mila anni fa, trovò un frammento di osso. Non sembrava un reperto eccezionale: piccolo e ruvido, aveva la forma e le dimensioni dei sassolini che a volte si incastrano nelle suole delle scarpe. Tempo dopo, un paleoantropologo che ho incontrato a Denisova l’ha descritto come «il fossile meno spettacolare che abbia mai visto. Faceva quasi tristezza». Ma era pur sempre un osso, così Tsybankov lo mise in un sacchetto, che poi infilò in tasca, per mostrarlo a un paleontologo una volta tornato al campo.
L’osso conservava tratti anatomici particolari che consentirono allo scienziato di identificarlo come il frammento della punta di un dito di un primate, per l’esattezza la falangetta del mignolo. Poiché non ci sono prove che fra i 30 mila e i 50 mila anni fa in Siberia vivessero altri primati oltre agli uomini, il fossile doveva presumibilmente appartenere a una specie umana. A giudicare dalla superficie della giuntura non perfettamente saldata, l’essere umano in questione era morto giovane, forse a soli otto anni.
Anatolij Derevianko, direttore dell’Istituto di archeologia ed etnografia di Novosibirsk e degli scavi nell’Altaj, pensò che l’osso potesse appartenere a un membro della nostra specie, Homo sapiens. In precedenza, in quegli stessi depositi erano stati trovati manufatti elaborati, tra cui un bel braccialetto di pietra verde lucida, che potevano essere opera solo di uomini moderni. Tuttavia il DNA di un fossile trovato in una grotta vicina si era rivelato quello di un Neandertal, e dunque era possibile che anche in questo caso si trattasse di un reperto neandertaliano. Derevianko decise di dividere in due il frammento. Ne mandò una metà a un laboratorio di genetica californiano, dal quale però non ricevette mai risposta. Conservò l’altra metà in una bustina e la consegnò personalmente a Svante Pääbo, genetista del Max-Planck-Institut per l’antropologia evolutiva di Lipsia. E lì, il caso dell’osso di mignolo di Denisova conobbe una svolta inattesa e sorprendente.
Pääbo, svedese trapiantato in Germania, è a detta di molti il massimo esperto mondiale di DNA antico, in particolare umano. Lo scienziato ha molti risultati importanti al suo attivo. Nel 1984 fu il primo a isolare il DNA da una mummia egiziana. Nel 1997 ha consolidato la propria reputazione scientifica ripetendo l’impresa con un neandertaliano, vale a dire un rappresentante della specie umana scomparsa più di 25.000 anni prima dei faraoni egizi.
Quando Pääbo ricevette il reperto di Derevianko, il suo team era impegnato nel produrre la prima sequenza completa del genoma dell’uomo di Neandertal, un’altra impresa che prima sembrava impossibile e che occupava quasi tutto il suo tempo. Il suo laboratorio inoltre aveva un arretrato di reperti da analizzare provenienti da diverse parti del mondo. Di conseguenza fu solo alla fine del 2009 che il frammento di mignolo russo attirò l’attenzione di Johannes Krause, all’epoca uno dei ricercatori senior del team di Pääbo (oggi lavora all’Università di Tubinga). Al pari degli altri, Krause presumeva che l’osso appartenesse a Homo sapiens. Lo scienziato aveva sviluppato un metodo per distinguere il DNA di un fossile da quello di ricercatori, dipendenti di museo o altri che lo avessero maneggiato e contaminato.
Krause e il suo studente Qiaomei Fu estrassero dal frammento il DNA mitocondriale (mtDNA), una piccola parte del genoma presente in centinaia di copie nelle cellule viventi e che quindi si trova più facilmente in un osso antico. I due studiosi procedettero al confronto della sequenza del DNA con quella di uomini viventi e di neandertaliani. Poi, increduli, decisero di ripetere l’esame. Un venerdì pomeriggio, mentre Pääbo era all’estero per partecipare a una riunione al Cold Spring Harbor Laboratory di Long Island, Krause convocò i ricercatori del laboratorio e li invitò a fornire una spiegazione alternativa a ciò che aveva scoperto. Nessuno fu in grado di farlo. Poi chiamò Pääbo al cellulare. «Johannes mi chiese se fossi seduto», ricorda Pääbo. «Gli dissi che ero in piedi, e mi suggerì di trovare subito una sedia».
Krause stesso ricorda quel venerdì come «il giorno più eccitante della mia vita professionale». A quanto pareva, quel pezzetto di osso del mignolo non era di un H. sapiens, ma neppure di un Neandertal. Apparteneva a una nuova specie umana ancora sconosciuta.
NEL LUGLIO 2011 Anatolij Derevianko organizzò un simposio scientifico presso il campo archeologico situato a poche centinaia di metri dalla grotta di Denisova. Derevianko diede il benvenuto ai 50 ricercatori, incluso Pääbo, che erano venuti a visitare la grotta e a confrontarsi sulla possibile collocazione del nuovo misterioso essere umano nella documentazione fossile e archeologica dell’evoluzione umana in Asia.
L’anno prima erano stati trovati altri due fossili – due molari – contenenti DNA simile a quello del mignolo. Il primo dente era più grande rispetto a un dente di uomo moderno o di Neandertal. Per forma e dimensioni ricordava i denti di specie molto più primitive di Homo vissute in Africa milioni di anni fa. Il secondo molare era stato trovato nel 2010 nella stessa camera della grotta in cui era emersa la falangetta, anzi quasi al fondo dello stesso deposito di 30-50 mila anni fa, denominato Strato 11.
Questo dente era ancora più grande del primo e presentava una superficie di masticazione quasi doppia rispetto a un tipico molare umano. Era così grande che Bence Viola, paleoantropologo del Max Planck, aveva pensato appartenesse a un orso delle caverne. Soltanto dopo averne analizzato il DNA fu confermato che si trattava di un reperto umano, o meglio denisoviano, come gli scienziati hanno iniziato a chiamare i nuovi antenati. «È indicativo della stranezza di questi individui», dice Viola. «I loro denti perlomeno erano veramente particolari».
Il team di Pääbo potè estrarre dai denti solo una piccola quantità di DNA, appena sufficiente a dimostrare che appartenevano alla stessa popolazione del dito, anche se non allo stesso individuo. L’osso del mignolo era invece stato straordinariamente generoso.
Il DNA si degrada nel tempo, così di solito in un osso che risale a decine di migliaia di anni fa ne rimane ben poco. Inoltre il materiale genetico proprio dell’osso – il cosiddetto DNA endogeno – è solo una minima percentuale del DNA che si rileva in un campione, che ne contiene molto altro proveniente dai batteri del suolo e da altre sostanze contaminanti. Nessuno dei reperti fossili analizzati dal gruppo di Pääbo conteneva il 5 per cento di DNA endogeno, anzi la maggior parte ne aveva meno dell’l per cento. Ma il DNA del frammento osseo era per il 70 per cento endogeno. Evidentemente la grotta fredda lo aveva conservato bene.
Con tanto DNA a disposizione, i ricercatori accertarono facilmente che nel campione non c’era traccia del cromosoma Y maschile. La falange apparteneva a una bambina morta nella grotta di Denisova o nelle sue vicinanze decine di migliaia di anni fa. Gli scienziati non avevano idea di quale potesse essere il suo aspetto, sapevano soltanto che era completamente diversa da qualsiasi altra cosa avessero mai visto.
Per qualche tempo credettero di avere anche un dito del piede della piccola. Nell’estate del 2010, infatti, sempre nello Strato 11 era stato rinvenuto anche l’osso di un dito del piede umano. Il suo DNA fu analizzato a Lipsia da una specializzanda, Susanna Sawyer, che presentò i risultati della sua ricerca nel 2011. Lasciando tutti di stucco, Sawyer dichiarò che il dito del piede apparteneva a un neandertaliano. Il mistero della grotta si infittiva.
Il braccialetto, anch’esso trovato nello Strato 11, era stato quasi sicuramente realizzato da uomini moderni. L’osso del dito del piede era neandertaliano. Il frammento del mignolo era altro ancora. Una sola grotta, tre specie umane diverse. «La grotta di Denisova è magica», dice Pääbo. «È l’unico posto della Terra in cui sappiamo che hanno vissuto neandertaliani, denisoviani e primi uomini moderni». Per tutta la settimana, durante le pause del simposio, Pääbo continuò a tornare da solo alla grotta, come se trovarsi lì dove era stata la bambina e toccare le fredde pareti di roccia che forse anche lei aveva toccato potesse aiutarlo a trovare nuovi indizi.
PÄÄBO È CRESCIUTO A STOCCOLMA con la madre single, una chimica, e un padre presente solo di rado, il biochimico Sune Bergström che aveva un’altra famiglia legittima e dopo qualche tempo avrebbe vinto un Nobel. Appassionato di egittologia poi convertito alla biologia molecolare, Pääbo è riuscito a fondere i due interessi quando nel 1984 ha lavorato sul DNA di una mummia. Oggi, a 58 anni, è un uomo alto e magro le cui sopracciglia marcate si muovono animatamente se è infervorato; come quando parla di Denisova, per esempio.
Come mai le tre specie umane sono finite in quella grotta? Qual era il legame tra neandertaliani e denisoviani, e tra questi e l’unica specie umana vivente? I loro antenati hanno avuto rapporti sessuali con i nostri? Non era la prima volta che Pääbo si poneva domande del genere.
Il DNA neandertaliano grazie a cui conquistò i titoli dei giornali nel 1997 era completamente diverso da quello degli esseri umani che oggi vivono sulla Terra. Faceva pensare che l’uomo di Neandertal appartenesse a una specie diversa dalla nostra che, guarda caso, si era estinta poco dopo che i nostri antenati lasciarono per la prima volta l’Africa e raggiunsero i territori dei neandertaliani in Asia occidentale e in Europa. Ma quel DNA, come il primo che Krause estrasse dal dito denisoviano, era mtDNA, proveniva cioè dai mitocondri, gli organelli cellulari che producono energia, e non dal nucleo dove si trova la maggior parte del nostro genoma. Il DNA mitocondriale contiene appena 37 geni, e viene ereditato soltanto dalla madre. È un registro limitato della storia di un popolo, un po’ come una pagina strappata da un libro che ne contiene molte altre.
Prima dell’incontro a Denisova, Pääbo e i suoi colleghi avevano pubblicato le prime versioni del genoma completo dell’uomo di Neandertal e dell’uomo di Denisova. Ciò ha permesso a Pääbo e ai suoi collaboratori di scoprire che oggi i genomi umani contengono una piccola ma significativa quantità di codice neandertaliano, circa il 2,5 per cento. È possibile che l’uomo di Neandertal sia stato portato all’estinzione da uno strano e nuovo popolo che come lui era emigrato dall’Africa, ma non prima di un’ibridazione di cui la maggior parte di noi porta ancora il segno, a 50 mila anni di distanza. Solo un gruppo di uomini moderni non ne reca traccia, gli africani, perché l’incrocio tra specie è avvenuto fuori dal loro continente.
Benché il genoma dei denisoviani indichi una più stretta correlazione con i neandertaliani, la specie si mescolò anche con la nostra. Ma la distribuzione geografica di questa eredità è sorprendente. Quando i ricercatori confrontarono il genoma denisoviano con quello di varie popolazioni umane moderne non ne trovarono traccia in Russia o nella vicina Cina né altrove, se non nei genomi della popolazione della Nuova Guinea, di altri popoli delle isole della Melanesia e degli aborigeni australiani. In media il genoma di questi gruppi umani è per il 5 per cento denisoviano. I gruppi negrito delle Filippine non ne hanno più del 2,5 per cento circa.
Da questi dati Pääbo e colleghi hanno ricostruito uno scenario di ciò che potrebbe essere accaduto. Un po’ prima di 500 mila anni fa, probabilmente in Africa, gli antenati degli uomini moderni si separarono dalla linea evolutiva che avrebbe dato origine a neandertaliani e denisoviani (il più probabile progenitore comune di tutte e tre le specie è Homo heidelbergensis). Mentre i nostri avi rimasero in Africa, l’antenato comune a neandertaliani e denisoviani emigrò. In seguito le due specie si divisero: i neandertaliani si spostarono a ovest, in Europa, mentre i denisoviani si diffusero in Oriente.
Passato altro tempo, anche gli uomini moderni si avventurarono fuori dall’Africa, incontrarono i neandertaliani in Medio Oriente e in Asia centrale e in piccola parte si mescolarono con loro. Secondo le testimonianze presentate all’incontro di Denisova, l’incrocio avvenne probabilmente tra i 67.000 e i 46.000 anni fa. Un gruppo di uomini moderni proseguì poi verso est fino all’Asia sud-orientale, dove intorno a 40 mila anni fa incontrò i denisoviani. I moderni si mescolarono anche con loro e poi si spostarono in Australasia, portandovi il DNA denisoviano.
Uno scenario simile potrebbe spiegare come mai le uniche prove dell’esistenza dei denisoviani di cui disponiamo finora siano i tre fossili rinvenuti in una caverna siberiana e il 5 per cento del genoma di popoli che oggi vivono a migliaia di chilometri di distanza. Ma molti interrogativi attendono ancora risposta. Se i denisoviani erano tanto diffusi, perché non se ne trova traccia nel genoma dei cinesi Han o di qualsiasi altro gruppo asiatico tra la Siberia e la Melanesia? Perché non hanno lasciato testimonianze di tipo archeologico, come particolari utensili, per esempio? Chi erano veramente? E che aspetto avevano?
Fra tutti i possibili sviluppi, il migliore sarebbe trovare il DNA denisoviano in un teschio o in un altro fossile con caratteristiche morfologiche distintive, qualcosa che possa funzionare come una sorta di stele di Rosetta per riesaminare l’intera documentazione fossile asiatica. Ci sono già candidati interessanti, per la maggior parte cinesi, e in particolare tre teschi risalenti a un’epoca compresa tra i 250 mila e i 100 mila anni fa. Purtroppo il DNA non si conserva bene nei climi caldi. Finora nessun altro fossile è stato identificato come denisoviano attraverso l’unico strumento che possediamo per riconoscerlo: il suo codice genetico.
NEL 2012 IL TEAM DI PÄÄBO ha pubblicato una nuova versione del genoma della falangetta, talmente accurata e completa da rivaleggiare con qualsiasi genoma umano vivente che sia mai stato sequenziato. Il sorprendente risultato è stato raggiunto grazie al contributo del tedesco Matthias Meyer, un ricercatore fresco di dottorato che lavora nel laboratorio di Pääbo. Il DNA consiste in due filamenti intrecciati, la doppia elica che tutti conosciamo. Finora i metodi utilizzati per estrarlo dalle ossa fossili erano in grado di leggere le sequenze solo nel caso in cui si fossero preservati entrambi i filamenti. Meyer ha sviluppato una tecnica che consente di recuperare il DNA anche da frammenti piccoli e a un solo filamento, incrementando la quantità di materiale su cui si può lavorare. Il metodo ha prodotto una versione del genoma della bambina denisoviana estremamente accurata, tanto che i ricercatori hanno potuto distinguere tra le informazioni genetiche ereditate dalla madre e dal padre; in effetti, adesso dispongono di due genomi denisoviani molto precisi, uno per ciascun genitore. Questo a sua volta ha fatto luce sull’intera storia di questo tipo umano.
I ricercatori scoprirono prima di tutto che tra i genomi dei genitori c’erano poche variazioni, circa un terzo di quelle che si riscontrano tra due esseri umani viventi. Le differenze erano disseminate in tutto il genoma, il che escludeva l’endogamia: se i genitori fossero stati parenti avrebbero avuto grandi sequenze di DNA identiche. Il modello indicava invece che la popolazione denisoviana rappresentata dal fossile non era mai stata abbastanza numerosa da sviluppare molta diversità genetica. Peggio ancora, il gruppo sembrava aver subito un drastico declino in un’epoca anteriore a 125 mila anni fa; forse la bambina della grotta era tra gli ultimi rappresentanti della sua specie. Nel frattempo gli antenati degli uomini moderni si diffondevano sul pianeta.
Per documentare la nostra storia successiva abbiamo a disposizione miriadi di fossili, biblioteche piene di libri, e il DNA di 7 miliardi di persone. Il team di Pääbo ha scoperto un gruppo umano completamente diverso grazie a un solo frammento osseo. Lo scienziato svedese trova l’idea stuzzicante. «È incredibile pensare che fra tutti gli uomini oggi non ci sia nessuno con una storia demografica simile», commenta, sottolineando le parole con il solito movimento delle sopracciglia.
Eppure i denisoviani possono fornire informazioni anche sulla nostra specie. Ora che dispongono di ogni lettera del codice genetico denisoviano, Pääbo e i suoi colleghi possono aspirare a risolvere uno dei grandi misteri della nostra specie: quali geni ci rendono unici? Quali cambiamenti definitivi del codice genetico si sono verificati dopo che ci siamo separati dai nostri antenati più recenti? Studiando tutti i punti del genoma in cui gli esseri umani viventi condividono una caratteristica genetica nuova rispetto al genoma denisoviano, che mantiene un modello primitivo più simile a quello degli ominidi, i ricercatori hanno stilato una lista sorprendentemente breve. Pääbo l’ha definita la «ricetta genetica dell’uomo moderno». L’elenco contiene solo 25 mutazioni che avrebbero modificato la funzione di una particolare proteina.
È interessante notare che cinque di queste proteine influenzano il funzionamento del cervello e lo sviluppo del sistema nervoso. Tra queste ci sono due geni le cui mutazioni sono state correlate all’autismo e un’altra che è coinvolta nel linguaggio e nella parola. Ma resta ancora da capire che cosa facciano effettivamente questi geni per farci pensare, agire o parlare in modo diverso dai denisoviani e da qualsiasi altra creatura sia vissuta sul pianeta. Secondo Pääbo il risultato più importante che verrà dallo studio del DNA denisoviano sarà «scoprire che cos’è esclusivamente umano».
E la bambina della grotta? Il frammento di osso non esiste più, è stato usato tutto per estrarne il DNA. La bambina è ora una "biblioteca" di frammenti di DNA che possono essere ricopiati per sempre. Nell’articolo scientifico in cui presentano la storia del suo popolo, Pääbo e colleghi menzionano, quasi di passaggio, alcuni dati che la riguardano e che provengono da quella biblioteca: la bambina probabilmente aveva pelle, occhi e capelli scuri. Non è molto, ma ci consente di avere un’idea, per quanto approssimativa, del suo aspetto. Tanto per sapere chi ringraziare.