Stefano Semeraro, La Stampa 1/7/2013, 1 luglio 2013
DA NASTASE A FEDERER PROFESSIONE NUMERO UNO NELL’ERA DEL COMPUTER
«Questo è il bello di essere numero uno: che tutti gli altri ti stanno dietro». Se amate il tennis e ne conoscete un po’ la storia non avrete difficoltà a indovinare chi, fra i 25 Number One che si sono succeduti dal 23 agosto 1973 ad oggi ha pronunciato questa frase, quindici parolette che con ammirevole cinismo e sintesi feroce riassumono il significato puro, l’essenza del primato.
Chi invece non ha capito che la firma in calce è quella di Jimbo Connors potrebbe utilmente consultare l’agile volumetto che l’Atp, il sindacato dei tennisti professionisti, ha voluto dedicare alla storia dei re della racchetta a quarant’anni dalla nascita del ranking computerizzato, presentandolo a Wimbledon e dedicandone la memoria a Brad Drewett, il presidente dell’Atp da poco scomparso, un ex-giocatore che aveva a cuore ciò che gli anglosassoni chiamano «heritage»: il lascito, la memoria storica del tennis.
Fino al 1973 le classifiche le avevano stilate a penna, in maniera ufficiosa e con criteri inevitabilmente soggettivi, i più prestigiosi fra i giornalisti specializzati del settore, da Lance Tingay al nostro Rino Tommasi. In quel fine agosto di quarant’anni fa debuttò invece l’algoritmo fatto macchina, quello che allora si chiamava calcolatore elettronico e che oramai scandisce con logica apparentemente impersonale non solo l’avvicendarsi delle classifiche del tennis, ma gran parte della nostra esistenza.
Il primo sovrano computerizzato fu Ilie Nastase, lo Zingaro del tennis, e dopo di lui sedici, fra i venticinque che hanno toccato almeno per una settimana il vertice, sono riusciti a chiudere un’annata da numeri uno. Sampras ce l’ha fatta per sei stagioni consecutive, dal 1993 al 1998, mentre il record di settimane sul trono (non consecutive), gliel’ha strappato Federer l’anno scorso, arrivando a 302. Il più lesto ad arrivare in cima è stato Lleyton Hewitt, nel novembre del 2011, a 20 anni e 8 mesi (uno in meno di Marat Safin), il più anziano John Newcombe, che debuttò sul trono un mese prima di compiere 32 anni, nel 1974. Il computer è in grado anche di offrirci l’identikit del numero uno «medio» del tennis: un fenomeno di 24 anni, capace di giocare 85 match in una stagione portandone a casa l’87 per cento, vincendo 8,4 titoli e intascando l’1,7 per cento dei quattro Slam. Una statistica alla Trilussa, esatta al decimale ma poco realistica; più interessante è scoprire attraverso le frasi dei protagonisti la psicologia che li ha guidati nel sentiero dell’eccellenza. «Essere numero uno del mondo non è una cosa di cui ti puoi stancare», sostiene John McEnroe. «Sono stato fra il numero 2 e il numero 3 per due o tre anni, ma non era proprio quello il mio obiettivo», ha detto quel perfezionista di Ivan Lendl, mentre per Stefan Edberg «la cosa più bella di essere stato n.1 è di poterlo raccontare ai tuoi bambini».
Boris Becker ha ammesso che gli vollero «almeno due o tre notti per realizzare che ero arrivato lassù», Carlos Moya nel 1999 commentò l’onore con pragmatismo: «be’, almeno per una settimana potrò dire di essere stato il re del mondo». Ma gli andò meglio del previsto, visto che furono due. Un record che solo Pat Rafter, forse il più onesto ed autoironico dei sovrani, riuscì pochi mesi dopo a strappargli. «Numero 1 per una sola settimana – concluse il bel Pat - un record che nessuno può togliermi. E che nessuno potrà mai battere». I primati infrasettimanali, in effetti, non sono previsti neppure dal computer.