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 2013  luglio 01 Lunedì calendario

IL DOLCE PROFUMO DEL FIENO


Come fai a non sorridere quando, all’inizio dell’estate, cammini tra le verdi valli della Transilvania? Nell’aria si sprigiona un profumo che mette allegria e proviene dai Carpazi della Romania centrale, dove si trovano i più ricchi e variegati campi di erba da fieno di tutta l’Europa. Un metro di prato contiene fino a 50 specie di erbe e fiori, e ancora di più se ne scoprono semplicemente sedendosi e guardandosi intorno. Questo miracoloso rigoglio non è frutto soltanto della natura, ma anche della mano dell’uomo. Tanta ricchezza è possibile solo quando un prato viene falciato ogni estate. Se restasse incolto, si riempirebbe di sterpaglia nel giro di tre, cinque anni. In Transilvania la bellezza è il risultato della simbiosi tra uomo e natura. Per tutto il giorno l’odore dell’erba diventa più intenso, e poi, al calare del sole e di notte, dai fianchi delle colline si spande il profumo, simile al miele, di Platanthera bifolia e Platanthera chlorantha impollinate dalle falene. Fate una passeggiata e scoprirete quanti fiori si affollano intorno ai vostri piedi.
Il fatto che non si usino insetticidi spray o fertilizzanti artificiali – troppo costosi e sospetti per i piccoli agricoltori della zona – fa sì che i fianchi delle colline si coprano di salvia viola e lupinella rosa. Nelle zone più umide i botton d’oro, una sorta di ranuncoli ingranditi, somigliano a lanterne giapponesi. I piccoli fiori arancione scuro della pilosella si mischiano all’acetosa e alle orchidee, alle campanule e alle creste di gallo. In alcuni punti l’erba è schiacciata, saranno stati gli orsi in cerca di un formicaio o di funghi.
Fatevi accompagnare da Attila Sarig – un contadino trentenne – e l’esperienza sarà ancora più intensa. Sarig, originario di Ghimeş-Făget in Transilvania, si ferma qui e là e raccoglie qualche erba – acetosa, antirrino, genziana, maggiorana, timo e salvia – che poi farà essiccare a casa o nel fienile per farne tisane durante l’inverno. «So che ciò che faccio contribuisce a creare il paesaggio», dice. Gli etnoecologisti Zsolt Molnár e Dániel Babai hanno scoperto che tra gli abitanti di Ghimeş-Făget chiunque abbia più di vent’anni è in grado di riconoscere, indicandone il nome, oltre 120 specie di piante. Anche i più giovani conoscono il 45-50 per cento delle specie. «Questo succede perché qui la gente dipende ancora dalla biomassa», spiega Molnár.
In questo mondo forgiato dall’uomo, perlopiù non meccanizzato e con terreni troppo ripidi per la risemina, la gente ha imparato a riconoscere ciò che la circonda. In nessun’altra regione del mondo, prosegue Molnár, esiste un vocabolario tanto ricco per indicare i vari habitat: ombroso, umido, scosceso, boschivo, muschioso e così via. «La media nel mondo si attesta tra i 25 e i 40 termini», precisa. «Il massimo trovato in un’altra zona è 100. Qui ne esistono almeno 148».

IN QUESTA REGIONE LA VITA È REGOLATA da un potente intreccio di eventi naturali. D’estate l’erba dei pascoli nutre le poche vacche di famiglia. Ma nei sei mesi che vanno da metà novembre a metà maggio le bestie rimangono al chiuso e il fieno è la loro unica fonte di sostentamento. Qui è possibile allevare mucche solo grazie al fieno, e le persone vivono solo grazie al latte. La gente in Transilvania vive di ciò che passa dal prato al piatto. Ecco perché in queste valli il fieno è la misura di tutte le cose. Quando Réka Simó, la moglie di Attila che è cresciuta a Budapest, è venuta per la prima volta a Ghimeş-Făget, non riusciva a credere che «la gente attraversava i prati solo camminando in fila». Era come se quei «campi fossero un luogo sacro e l’erba una divinità da rispettare». In un certo senso la vita dei contadini della Transilvania dipende dal fieno.
In tutta la regione – dal distretto romeno di Maramureş nella parte settentrionale ai villaggi occupati dai sassoni che parlano tedesco, passando per le province centrali di etnia ungherese – lo stile di vita sembra essere ancora quello medievale. Milioni di persone in Romania vivono di agricoltura, con le mandrie più piccole, i raccolti più scarsi, i redditi più bassi e uno tra i più alti livelli di autosufficienza di tutta l’Europa. I terreni misurano in media 3,2 ettari. Più del 60 per cento del latte prodotto nel paese viene da contadini che possiedono due o tre mucche, ma neppure un goccio lascia la fattoria dove è stato prodotto. La matematica è semplice e tirannica al tempo stesso: in inverno una mucca mangia quattro o più tonnellate di fieno. Per coltivare questa quantità sono necessari almeno due ettari di terreno e fino a dieci giorni di fatica solo per la mietitura. Se, come accade ancora in vaste zone montane, a mietere è una sola persona che usa una falce fienaia, tre mucche equivalgono a un mese di mietitura.
E questo è solo l’inizio. Per arrivare al prodotto finale c’è ancora una decina di passaggi. Prima c’è la mietitura; poi si procede con il rastrello per raccogliere gli steli tagliati in piccoli fasci in modo che non assorbano l’umidità; il giorno dopo li si sparge di nuovo per farli essiccare al sole; li si rivolta per farli asciugare anche dall’altra parte, poi se ne fanno delle balle che alla fine vengono caricate su un carro.
Questa sorta di grande covone di fieno su ruote, sopra cui danzano le farfalle, scende giù per i sentieri fino a casa, dove i cavalli mangeranno il fieno che loro stessi hanno trasportato. Il carico viene sistemato nel fienile in un unico cumulo che arriva fino al tetto ed emana un delizioso e intenso profumo (le galline sono state cacciate via prima per non farle finire sotto il fieno). Simile a un tessuto verde frusciante («deve fare il suono giusto altrimenti ha un saporaccio») in cui i fiori blu, gialli e rossi mantengono i loro colori, il covone rimane lì fino all’inverno, quando le mucche ritornano a casa dai pascoli; il fieno per i pasti quotidiani viene tagliato ogni giorno dalla scorta invernale e finalmente arriva alle mangiatoie delle bestie.
In estate, quando l’erba dei pascoli è abbondante, dal latte delle mucche si fa un formaggio a pasta molle che di solito viene consumato a casa o condiviso con i vicini. Il latte viene anche venduto nel villaggio o nelle vicinanze, bevuto a casa e dato ai vitelli prima di venderli, vivi, o di mangiarli. La loro carne, si sa, è la migliore. Oggi non si produce più molto burro. Invece si usa spalmare sul pane il grasso di maiale, squisito ma dannoso per il cuore. Ogni tanto si dà il latte anche ai maiali. Seguendo percorsi diversi, dunque, Sua Bontà il fieno finisce per intrufolarsi in ogni aspetto della vita.

MA UNA COSA È CERTA: IN QUESTO mondo non si naviga nell’oro. Basta stringere la mano di qualcuno, uomo o donna non fa differenza, per capire che qui la gente lavora duro. Una famiglia di contadini vive con circa 4.000 euro all’anno, una cifra spesso integrata con i guadagni di un secondo lavoro. Meno della metà delle case ha una stanza da bagno. I cavalli costano molto perché pochi si possono permettere l’automobile. Una volta sono stato a cena con una famiglia che discuteva dell’opportunità di comprare un cavallo o un trattore. Conclusione: meglio un cavallo, perché nessuno ha ancora inventato un trattore che generi un suo simile. D’altra parte non bisogna dar da mangiare al trattore nei giorni in cui non lavora.
Negli anni del comunismo, dal 1947 al 1989, il regime della mietitura nei prati d’alta quota è stato mantenuto. Ma dopo la rivoluzione che alla fine del 1989 ha portato all’eliminazione dei Ceauşescu le cooperative agricole sono state abolite e la terra è tornata ai proprietari originari. La gente è tornata all’agricoltura su piccola scala praticata prima del comunismo, che però è entrata in crisi dalla metà degli anni Novanta. I contadini sono invecchiati e i giovani hanno pensato che potevano guadagnare di più con altre coltivazioni o lavorando in città. Il latte si poteva comprare a poco prezzo dai produttori industriali. Nessuno pensava ai campi di fieno come a un’importante risorsa del passato.
Come spiega l’anziano contadino Vilmos Szakács di Csíkborzsova, in Europa occidentale «la tendenza generale era di abbandonare i vecchi stili di vita». Emigrare in un altro paese sembrava più allettante che rimanere a casa con le bestie e il fieno. Oggi con due mesi di lavoro nel settore edile in Norvegia o in Svezia si guadagna abbastanza per comprare una casa e un po’ di terra in Transilvania. Come in altre comunità della regione, a Csíkborzsova, grazioso paesino della zona orientale, il numero degli animali è crollato, passando da 3.000 bovini e 5.000 ovini del 1990 a 1.100 bovini e 3.500 ovini del 2012.
La gente ha trovato occupazioni diverse, gli animali sono diminuiti, il fieno è diventato meno necessario e questo ha comportato un progressivo abbandono dei campi che non si dovevano più mietere.
Col tempo il bosco è tornato a invadere i prati e, offuscati dall’ombra degli alberi, i fiori hanno iniziato a sparire. «Abbiamo visto gli abeti crescere sul crinale a sud», racconta Rozália Ivácsony a proposito dei campi del suo vicino, a ovest di Csíkborzsova. «Il vecchio proprietario è morto e il figlio non sapeva che farsene». E la famiglia? «I ragazzi sono cresciuti, vengono, danno un’occhiata fuori, mangiano, bevono e se ne vanno. Abbiamo insegnato loro a non fare i contadini». Poi indicando con il braccio i suoi campi bellissimi dopo la mietitura aggiunge: «Questa terra ormai è inutile. Gli stranieri non la vogliono e prima o poi sarà abbandonata». E cominciano ad arrivare i soldi guadagnati dai giovani che lavoravano all’estero. Le case che «in epoca comunista costavano sei covoni di fieno», spiega Gheorghe Paul, contadino di Breb, nel Maramureş, «oggi non costano meno di 500 covoni di fieno». Le vecchie case di legno sono state demolite o ristrutturate. Al loro posto ne sono spuntate altre più grandi, con il microonde in bella vista sui ripiani di melammina e il forno a incasso, affacciate sulle aie dove regna ancora il vecchio mondo: galline e tacchini che beccano sotto il prugno, la mucca che aspetta paziente nella sua stalla bassa e senza luce, i maiali che grufolano nel porcile e i nonni che portano il fieno raccolto nei campi.
L’ingresso della Romania nell’Unione Europea, nel 2007, ha esasperato i problemi. I complicati criteri per l’assegnazione dei fondi europei hanno impedito a molte piccole realtà agricole della Transilvania di accedere a quel denaro. Oltre il 70 per cento delle singole fattorie, ridotte a piccoli appezzamenti dalle continue suddivisioni, non è stato neppure preso in considerazione dai burocrati di Bucarest. Secondo I’UE un terreno che misuri meno di un terzo di ettaro non risponde ai requisiti necessari, ma in Transilvania la maggior parte dei campi è più piccola. In alcune delle fattorie più grandi il numero delle mucche è aumentato ma le norme igieniche pensate per i caseifici high-tech tedeschi e scandinavi contrastano con i metodi tradizionali. Per fare la ricotta, per esempio, si usano da sempre i cestini di betulla («Devi fare tutto con delicatezza», spiega Attila Sarig mentre lavora la cagliata, «come con una ragazza»), mentre l’UE ribadisce 1’obbligo dell’uso di tavoli di acciaio inossidabile. In alcune zone della Transilvania la tradizione vuole che il giorno d’inizio della mietitura sia il 24 giugno, san Giovanni, ma il governo romeno ha fissato la data al 1° luglio. Se la mietitura viene effettuata quel giorno o dopo, per consentire ai fiori di produrre i semi e agli uccellini di crescere, si può avere diritto a ulteriori sussidi europei.

QUANDO HANNO CAPITO che il loro mondo stava scomparendo, gli abitanti del luogo hanno deciso di salvarlo, riappropriandosi delle loro vite. «Voglio conservare il paese che mio padre e mio nonno hanno costruito», dice Józef Sózcs. Le associazioni ambientaliste locali si sono date da fare. Fino ad allora il latte veniva acquistato nei villaggi da grandi aziende casearie che gestivano i punti di raccolta e ne controllavano il prezzo. A partire dal 2006 un paio di comunità, tra cui Csíkborzsova, hanno istituito i propri punti di raccolta del latte, hanno acquistato le attrezzature per la conservazione e la refrigerazione e installato gli impianti igienici conformi agli standard dell’UE. I contadini che portavano i loro secchi di latte al punto di raccolta venivano pagati, ma solo se il prodotto era pulito e di buona qualità.
I risultati non si sono fatti attendere. Il latte prodotto dai contadini di Csíkborzsova che avevano aderito al nuovo sistema veniva raccolto e venduto separatamente. All’inizio il prezzo del latte pulito è aumentato del 50 per cento e nel 2012 era triplicato rispetto a quello degli altri villaggi. Una sera al punto di raccolta di Csíkdelne incontro Jen Kajtár. Indossa ancora la tuta da lavoro azzurra e ha portato 50 litri di latte munto da cinque mucche. Le cose gli vanno bene.
Prima aveva quattro vacche, adesso ne ha sei. E in tre anni il prezzo del latte è quadruplicato: è aumentato una prima volta con l’installazione del nuovo punto di raccolta e poi di nuovo quando la cooperativa del villaggio ha aperto un punto di vendita diretta nella vicina città di Miercurea-Ciuc. Adesso il latte fresco e non pastorizzato si può acquistare presso un distributore automatico che viene rifornito due volte al giorno da un camion frigorifero che arriva dal villaggio. Ho chiesto a Kajtár perché secondo lui la gente di città compra il suo latte. «Perché è autentico latte intero», risponde sorridendo sotto i baffi. «È un pezzo del passato che le città si sono lasciate alle spalle».
Non avrei mai pensato di commuovermi per un distributore di latte. Ma ho davanti il simbolo di un popolo che tenta di salvare qualcosa di prezioso in un mondo che fa di tutto per distruggerlo. Può sembrare assurdo, ma il distributore di latte di Miercurea-Ciuc può garantire la sopravvivenza ai campi fioriti lassù sulle montagne.
L’economia è ancora fragile. Il distributore di latte fabbricato in Svizzera costa circa 10 mila euro, e ne guadagna intorno ai 31 mila l’anno. Tuttavia questo genere di vendita diretta implica il fatto che se un contadino introduce latte di cattiva qualità nel sistema chi lo compra sta male, la fiducia va a farsi benedire, le vendite crollano e a pagarne le conseguenze è tutto il villaggio.
Nella settimana che trascorro a Csíkdelne, 4 dei 22 contadini vengono sospesi per una settimana perché hanno portato latte scadente. Due di loro vengono addirittura espulsi in via definitiva per incapacità cronica di soddisfare i requisiti necessari.
Qui sono molto orgogliosi di non aver abbandonato la bellezza che hanno ereditato. «È la nostra terra», dice Anuța Borea, una giovane madre di Breb, riferendosi ai campi della sua famiglia. «Dobbiamo prendercene cura, tramandare ai nostri figli le tradizioni e insegnare loro qualcosa che li faccia sopravvivere se non trovano lavoro».
Per un attimo Anuța interrompe il lavoro di ricamo sulla camicia di lino del figlio. «La tradizione è un patrimonio, imparare li renderà più ricchi», mi spiega. Incontro un’altra donna di Breb, Ileana Pop, intenta a ricamare la camicia di lino di suo genero. Le chiedo di raccontarmi da dove vengono i motivi decorativi che sta ricamando.
«Oh, risalgono alla notte dei tempi», risponde con noncuranza. «Noi però mescoliamo i disegni antichi con le nostre idee. Rimaniamo fedeli allo stile, anche se lo variamo un po’».
Se l’economia si riprendesse, se i sussidi europei all’agricoltura fossero più attenti alle differenze locali, se il governo romeno fosse più sensibile alla straordinaria ricchezza del paesaggio della Transilvania, allora sì che sarebbe possibile salvare questo mondo del fieno. La Transilvania non è un reperto del passato. È ancora viva, anche se ha bisogno di aiuto. Ma qui si pone uno dei grandi interrogativi sul futuro: il mondo moderno può sostenere la bellezza che non ha contribuito a creare?