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 2013  luglio 01 Lunedì calendario

JEFF NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE


[Jeff Koons]

Pantaloni attillati neri, giacca nera, scarpe lucide nere, camicia bianca senza nemmeno una piega. Sguardo sorridente e faccia che sembra una maschera, quasi a sovrapporsi ad una delle sue multiformi creazioni, come per altro avviene spesso. Jeff Koons è in piedi davanti all’enorme Afrodite punk nella prima sala della mostra nella Gagosian Gallery di New York. Venerato, odiato, venduto a milioni di dollari, irriso e celebrato. Erede di Warhol, colui che ne ha sporcato il nome portando la pop art sotto il livello del gusto. Splendido interprete dei tempi, tanto luccichio a nascondere il nulla: il 58enne artista americano è il trionfo degli ossimori. La critica, come da definizione, si divide. Lui non se ne cura. Cammina entusiasta tra le sue opere, come Alice, una volta superato lo specchio, la dimensione cambia: realtà e fantasia si mischiano, passato e presente si inseguono e scontrano, un flusso continuo di pensieri che rinasce ogni volta diverso. Ci sono gli omaggi all’arte classica, dentro i quali spuntano Superman o una ragazza a cavallo di un delfino. Ci sono gli animali, i cigni e le scimmie. Ci sono i giocattoli: Hulk e King Kong. Si fatica a seguirlo. Vita, gioia, bambini, filosofia, soldi, creatività: le parole girano in tondo, come se non trovassero la via d’uscita oppure il senso è proprio in questo moto perpetuo e caotico. La passeggiata nel suo mondo delle meraviglie dura quasi un’ora.
Il New York Magazine la celebra come l’artista «più famoso dai tempi di Andy Warhol», le aste la battono a cifre record: è il momento migliore della sua carriera?
«Non userei questa definizione. Il mio lavoro è come un lungo viaggio: ho un dialogo continuo con le mie opere, uno scambio tra il momento dell’ispirazione e l’atto materiale della creazione. Ogni attimo di questo percorso mi dà soddisfazione. Negli ultimi anni sono contento di una cosa, questo sì, di essere riuscito a mettere a fuoco cosa mi interessa raccontare: la libertà. Alla mattina mi sveglio, mi do un pizzicotto e penso a come approfittare al meglio della mia libertà. L’arte mi ha dato il coraggio di spingermi sino a qui».
Ritiene Andy Warhol uno dei suoi maestri?
«Beh, no. Siamo persone molto diverse, con caratteri differenti. Entrambi però abbiamo lavorato sull’idea che tutto è bello per quello che è. E sul rimuovere i pregiudizi: questo è forse il nostro vero tratto in comune. Poi siamo anche tutti e due figli e nipoti di Duchamp e Picasso e degli altri che ci hanno preceduto: Manet e De Chirico».
Picasso, De Chirico? Suona strano detto da lei.
«Affatto, penso che la storia dell’arte sia percorsa da un sottile filo che tiene insieme le varie epoche. Ogni artista prende un pezzettino di quello che hanno fatto quelli prima di lui e va avanti».
La pop art ha un successo consolidato e storicizzato. Ma molti critici iniziano a metterne in risalto gli aspetti negativi, la via troppo commerciale che ultimamente ha preso. E non risparmiamo frecciate anche a lei. Cosa ne pensa?
«Lo so, capisco a cosa si riferisce e non mi crea alcun imbarazzo rispondere. A scanso di equivoci dirò subito che sono molto molto fortunato e sono contento per il successo economico che ho avuto nella mia vita. Ma è anche chiaro che io non mi definisco artista per i soldi che guadagno. Farei le stesse cose anche se la mia situazione economica fosse meno favorevole. Il lavoro ha un valore in sé: il mio, come quello di un operaio che sta in una fabbrica. Tu scegli una professione in base alla qualità che pensi possa portare alla tua vita interagendo con il mondo. Nessuno mi ha mai detto, quando ho iniziato, “sarai ricco”, eppure io ho continuato a credere in quello che facevo. Oggi penso che l’importanza del denaro sia soprattutto che mi permette di avere quella libertà di cui parlavo prima».
Sino ad arrivare a disegnare la custodia di uno champagne come ha appena fatto per Dom Perignon?
«Esatto. Per me è l’occasione di entrare in contatto con molte persone e con parti della società che di solito non si occupano di arte. La domanda economica crea opportunità e io le colgo, senza però mai perdere di vista la qualità del mio lavoro».
Come decide i progetti su cui lavorare? Da dove nasce la sua ispirazione?
«Scelgono i miei interessi per me. E penso che sia importante per tutti, non solo per un artista: seguire le proprie passioni, i propri desideri, sono loro la nostra vera ricchezza. Concentrarsi su di sé consente di creare un rapporto quasi metafisico con il tempo, si gioca d’anticipo e si ottiene quello che si vuole. Immagazzino tutto quello che mi colpisce: i miei figli, come crescono, come cambiano i loro corpi. Un incontro, un libro: celebro la vita e tutta la vita mi appassiona ed emoziona».
Lei usa tecniche e tecnologie differenti, miscela vari codici. Non ha paura di perdere l’identità di quello che fa?
«No, anzi. Il mio è un mondo fantastico, dove tutto è meraviglioso, stupendo. Adoro prendere pezzi classici e contaminarli con qualcosa di ultra moderno, mai visto prima. Per fare questo uso qualsiasi tipo di materiale e sfrutto ogni tipo di tecnologia, dal computer, che adesso con il 3D mi offre possibilità insperate prima, sino al raggio laser per tagliare un oggetto».
Una definizione per la sua arte?
«Voglio celebrare i sentimenti e attraverso le emozioni e i sensi creare un contatto con il pensiero filosofico. E fare in modo che chi guarda una mia creazione, chi cammina dentro una mia mostra venga automaticamente portato in questa dimensione trascendente. Dove tutto si mischia, si confonde».
C’è un’opera a cui è più affezionato?
«La mia vita, la mia famiglia, i miei figli».
Fuori c’è un sole d’estate, dall’Hudson sale un vento caldo. La galleria è ancora chiusa ma davanti al portone bianco e vetri c’è già una piccola folla. «Lo adoro», dice una signora indiana al marito: «Magari non capisco tutto, ma mi fa sognare».